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lunedì 13 luglio 2015

Castellalto: L’antica Castrum Veteris

Castrum Veteris Trasmundi non è solo un nome dal suono antico che rimanda ad echi lontani: è un viaggio alla ricerca del tempo perduto.
Un itinerario dai contorni a volte sfumati.
Eppure in questo caso ben definiti sul piano geografico.
Dal belvedere la vista si apre, infatti, sull'immensa pianura solcata dal fiume Tordino, spaziando dal Gran Sasso all'Adriatico, in un incredibile reportage visivo dell’amena provincia teramana.


Arrivo a Castellalto, in una giornata smagliante di tarda primavera, con il sole che scolpisce in lontananza le montagne.
Il borgo antico è immerso in un silenzio quasi sacrale.
L’abitato rustico e compatto, scolpito su di un costone roccioso come minuta opera d’arte, conserva sprazzi della sua antica struttura architettonica.

Ricordo che, qualche anno, fa il professor Valerio Casadio dell’università di Roma, autentica enciclopedia vivente del paese, mi parlò delle origini, raccontandomi storie affascinanti di feudatari che cinsero il borgo di fortificazioni.

Parlò di un ritrovamento eccezionale, un “bronzetto italico” di Ercole rivestito di pelle di leone, fattura ellenistica databile III, II secolo a.C.

Nei suoi racconti, lo storico citò vecchie case nel cui interno esisterebbero dei depositi- magazzini sotterranei, con delle capaci cisterne che un tempo raccoglievano l’acqua piovana da utilizzare per gli usi quotidiani.

Castellalto, ancora oggi rende l’idea, osservando i resti dei bastioni perimetrali di difesa e il severo portale d’accesso, di quale incredibile baluardo dovesse essere per i suoi pendii a picco che rendevano quasi impossibile entrarvi.
L’anima dei Castellaltesi è rimasta intatta nei secoli.

Un tempo era abitato da vecchi proprietari terrieri, pochi contadini, una manciata di valenti artigiani, sarti e calzolai che passavano di casa in casa, rimettendo in sesto il guardaroba di chi poteva permetterselo, ricevendo pagamenti in natura.

Oggi il vecchio e il nuovo convivono, anche se a fatica, in una complessa e armonica struttura, con edifici addossati l’uno all’altro senza soluzione di continuità, comunicanti tra loro con loggiati e androni, cunicoli e corti interne, retaggio evidente di un passato più importante della realtà odierna.

Il borgo è ricco di particolari caratteristici, reperti architettonici di una certa importanza e suggestive testimonianze lungo i suoi viottoli silenziosi.

L’antica casa del Barone Patrizi, dimora degli Acquaviva, ne è un esempio.
Molti decori di nicchie e foglie di acanto sono scomparsi, ma il palazzo mostra ancora un passato glorioso. Nei primi anni del 900 il ricco signorotto possedeva gran parte del paese.
Poi per alterne vicende cadde in disgrazia, povero, accudito prima della morte dal suo “fattore”.

Nella piazzetta del vecchio municipio i ragazzi vocianti stanno tirando calci ad un pallone.

Uno di essi, il più sveglio, occhi vivaci e gesti da personaggio dei fumetti, mostra orgoglioso un piccolo sottoscala.
Ai lati ci sono delle minuscole feritoie per aria e luce.

Qui un tempo, racconta il ragazzo che da grande farà sicuramente la guida turistica, venivano rinchiusi i bambini restii allo studio.
E’ piccino il paese, circa duemila famiglie, minime prospettive di lavoro.


Molti sono emigrati verso il vicino Eden industriale di Castelnuovo Vomano, creando, in una zona negli anni 50, costituita da case coloniche e masserizie dei Cerulli Irelli e Guerrieri Marcozzi, un centro moderno di oltre quattromila anime, nato dalla fusione di vecchi agglomerati come Villa Gobbi, Villa S. Cipriano e Villa Parente.
Erano proprietà, un tempo, di famiglie agiate.

Castellalto è legato in una sorta di osmosi anche con lo splendido borgo medioevale di Castelbasso.
Non è solo la sede comunale, è un autentica impollinazione imprenditoriale che trova compimento nelle fabbriche della vallata del Vomano.
I paesani qui sono diffidenti fin quando non capiscono che hanno davanti un tipo semplice e acquistano fiducia nel loro interlocutore.
“Lavora e taci”, questo motto che sembra uscito da qualche popoloso villaggio del nord est dell’Italia, calza a pennello per Castellalto.
Il barista mesce, con discrezione, un buon bicchiere di trebbiano e lo accompagna con stuzzichini di prosciutto e pecorino.

Un vecchio abitante con il quale ho preso confidenza, snocciola una teoria di numeri che parlano da soli.
Le aziende agricole dei dintorni, mi dice, hanno le bestie contate.
Poche mucche da latte, mancano tori per coprirle. Poche capre, pochi maiali.
Un tempo da queste parti l’agricoltura e l’allevamento
erano risorse insostituibili.

Di colpo si copre il sole.
Si alza un vento freddo.
Varco il portale d’ingresso cinquecentesco della parrocchiale di San Giovanni.
Lo stile barocco riempie gli occhi.
Affreschi, statue, stucchi, fregi e capitelli.
L’attuale chiesa è stata ampliata nel 1589.
Precedentemente era una cappella sita nel mezzo delle mura di cinta che, partendo dall’arco di ingresso, cingevano tutto l’abitato.
Secoli prima il luogo era adibito all'”otium” delle terme.
Qui, stando ai ritrovamenti di antichi pavimenti e tubazioni, gli antichi Romani dedicavano una parte del loro tempo all'arte del vivere, alla cura di sé, lo spazio dell’anima e il piacere del corpo.
All'interno numerosi inginocchiatoi, panche, un confessionale che dimostra l’usura del tempo.
Una donna enorme, inginocchiata di schiena, pare svanire nel buio dell’unica navata.
E’ in attesa di una sicura assoluzione dei suoi piccoli misfatti.

La chiesa della Madonna degli Angeli del 1580, alle porte del paese, vicino a quello che resta di un caratteristico cimitero è suggestiva.

Anni fa vennero trafugati dei teschi forse da studenti di medicina, secondo alcuni da gente dedita a riti di stregoneria.
Un luogo speciale.


Si dice che sia stato costruito in pochi giorni dal popolo, in omaggio alla Vergine che avrebbe salvaguardato il luogo dalla tremenda carestia che fece morire di fame migliaia di persone, soprattutto nelle campagne.

Le gerarchie ecclesiastiche avrebbero sempre evitato di legittimare questo autentico miracolo.
Ma in fondo chi se ne importa, dicono da queste parti.
Il miracolo, la Madonna l’ha fatto davvero!
Mi piacerebbe poter rendere meglio le meraviglie di un silenzio rotto qui e là dal pianto di un neonato o dalle note discrete di una radio accesa.

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Arrivare a Castellalto: 
Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: direzione Ancona; da sud: direzione Pescara), uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, uscire in direzione Castellalto/Bellante, seguire la direzione per Castellalto.

sabato 11 luglio 2015

Custodi e non padroni: Considerazioni su “Laudato sì” di Papa Francesco

«Laudato si’, mi’ Signore », cantava san Francesco d’Assisi.
In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia:
«Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba ».
Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei.
(Papa Francesco)

La lettera enciclica del Papa “Laudato sì”, è qualcosa di incredibilmente bello.

In duecento quarantasei paragrafi, a formare sei capitoli, si dipana un profondo inno alla vita, una Magna Carta del creato, la summa di tutto quello che potrebbe dirsi o scriversi a proposito di natura, ecologia e ambiente.

È soprattutto un appello alla scienza affinché si allei con le religioni per esortare le coscienze a sentire propria la responsabilità della custodia della nostra “casa comune”.

È un impegno ancora più pressante per noi francescani, anche per il titolo scelto dal pontefice a richiamare la più bella poesia del mondo, il capolavoro del nostro serafico Padre Francesco d’Assisi: il Cantico delle Creature, inno insuperato nei secoli per la sua bellezza cosmica che penetra tutto il creato, quasi lambendo l’ineffabilità di Dio.

Era il 1224 quando il Poverello, nel silenzio di San Damiano, malaticcio e quasi cieco, soffiato nel cuore dalla forza dello Spirito Santo, dettò la pagina forse più straordinaria mai scritta per lodare Dio, abbracciando il mistero del creato e della natura e diventando il paladino dell’ecologia.
Questo, suo malgrado, dato che “Il Cantico” è un bellissimo trattato teologico, un testo dettato dall’amore per l’Altissimo e non un qualcosa per celebrare soltanto ambiente e natura.

Papa Francesco, partendo dal mistero della creazione e del Creatore, ha voluto dedicare la sua enciclica a quella lode infinita al Signore e alle sue creature per ricordarci che l’uomo, nello spirito del Genesi, non è il padrone dell’universo.

Solo Dio è tale.

E ha posto l’uomo nel centro dell’Eden “perché lo lavorasse e lo custodisse” (Genesi 2,11).

Egli non ha affidato all’uomo il governo del mondo affinché ne faccia quel che vuole.
Solo il Creatore è Signore di tutte le cose.
Noi, dice Bergoglio, non siamo Dio.

La terra ci precede e ci è stata data in prestito.
Siamo, comunque, i custodi, i guardiani che dovranno, alla fine dei tempi, riconsegnare la sua creazione all’Onnipotente passandoci uno a uno il testimone nel corso degli anni.
Proprio come ognuno di noi fa con la sua anima, nel momento del trapasso.
Parole ovvie ma che spesso dimentichiamo nella società frenetica in cui stiamo vivendo.
Questo immenso dono di Dio lo sporchiamo continuamente, lo deturpiamo così come facciamo per la nostra anima che abbiamo avuto immacolata e che invece rendiamo spesso lercia e purulenta.

Il creato è concesso da Dio all’uomo per godere degli infiniti profumi, colori, sapori e soprattutto benefici, non certo per accumulare ricchezze, mercificarlo e sotterrarlo con immonde speculazioni.

Ma il Papa ha soprattutto a cuore gli Ultimi della Terra e, in gran parte del suo scritto, ripete che il creato è di tutti e soprattutto di chi è posto ai margini della società, quei poveri, derelitti di cui Gesù parla nelle sue “Beatitudini” del meraviglioso “Discorso della montagna”.

Bergoglio propone il “modello San Francesco”, dal quale bisognerebbe imparare come sia “inseparabili la cura della natura, dalla giustizia verso i deboli, l’impegno per una società dell’accoglienza e la pace interiore tanta desiderata”.
È la Perfetta Letizia amata profondamente dal serafico Padre.

Il pontefice parla di “conversione ecologica” da un’economia che persegue, delittuosamente, solo e unicamente il profitto creando inquinamento, cambiamenti climatici, distruzione senza precedenti di ecosistemi e deteriorando la qualità della vita umana, causando colpevolmente un degrado sociale.
È un appello senza precedenti alla responsabilità in base al compito che Dio ha dato all'essere umano nella creazione: “Coltivare e custodire il giardino in cui lo ha posto” (cfr. Genesi 2,15).

“Responsabilità” pare essere la parola “chiave” per un’umanità che ha acquisito enormi poteri grazie all'energia nucleare, le biotecnologie, l’informatica e le profonde conoscenze del nostro stesso Dna.

È rischioso che questo tremendo potere sia in mano a pochi individui che dominano la gran parte dei fratelli, con i nefandi risultati sotto gli occhi di tutti.

Prendersi cura della natura è anche combattere le povertà, le diseguaglianze.
Il pontefice auspica, addirittura sottoponendosi senza paura agli strali di chi cerca una crescita avida e irresponsabile, una certa decrescita in alcune parti del mondo per favorire lo sviluppo delle zone buie del pianeta, procurando per esse risorse nuove.

Gioiamo, sembra infine dirci Bergoglio, come buon papà di famiglia, dei doni ricevuti dall'amore del Padre e noi, cristiani combattiamo la buona battaglia, incoraggiando uno stile di vita capace di non essere ossessionati dal consumo, crescendo nella sobrietà e nel rispetto di tutto il creato a cominciare dalle più piccole delle creature.