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martedì 23 dicembre 2014

Pietracamela, il paese che resiste!

Sulla panchina della piccola piazza di Pietracamela mi godo aria e panorama.
Nel silenzio sento gorgogliare il fiume.
All'improvviso mi sfreccia davanti una volpe. Attraversa la strada, si rifugia dietro una roccia della piccola cascata sul primo tornante per i Prati di Tivo.

Corre con una tale furia che le zampe si disarticolano creando una sorta di cartoon Disney.
Infine fugge definitivamente risalendo la piccola china con la coda dritta, vaporosa che pare il pennacchio di un antico principe.
Un sorriso che attenua la stretta al cuore.

È ridotta male l’antica “Petra” e “Cameria”, perla del teramano, nel cuore dell’antica via Cecilia, costruita molto prima di Cristo.
Il villaggio da fiaba di un tempo, con il suo tessuto urbano singolare, a intrecciare chiese, campanili a vele, fondaci ricavati dalla roccia e palazzotti vecchi come Noè, soffre ancora e terribilmente, i disastri del sisma del 2009.

La fiaba non ha avuto un lieto fine.
La magia si è trasformata in un maleficio.
Se il paese avesse un’anima urlerebbe all'infinito il suo dolore.

Sono ormai una manciata gli abitanti che osano continuare a sfidare gli elementi naturali.
Se ci si mettesse a contarli questi intrepidi non arriveresti a cinquanta.
Fin quando però dai comignoli vedremo uscire volute continue di fumo, il paese vivrà.
Quello è il segnale che qualche custode vigila e veglia.
Tutto si sta accanendo da anni contro questo splendido abitato.

Le viscere delle guglie dei Corni hanno traballato per la violenza di una faglia mortale; la pioggia ha fatto venire giù pietre e fango, coprendo parte dell’incantevole sentiero che porta ai Prati di Tivo.
Il paese di pietra muore e tutti recitano il “de profundis”.

Secondo i censimenti negli anni ’30 qui si era in circa duemila anime, negli anni ’90 si scese a duecento.
Oggi sono una manciata di volti.
La nascita di un bambino, da queste parti, sarebbe un evento storico. Lo sarebbero ancor più delle nozze.
Oggi, fuori stagione, si fatica a scambiar chiacchiere. Ci sono rimasti solo una teoria di solidi tronchi a emanare un balsamo di resina corroborante.
Questo è un paradiso in terra, immerso nella quiete dei boschi di faggio, tra le possenti rocce del Gran Sasso.

Per rivitalizzarlo tutti si inventano ricette.
Da anni si parla di trenini a cremagliera che salgono montagne attraverso sterrate da Forca di Valle da rendere fruibili, o tunnel foranti i monti. I progetti sono solo sogni!

Le poche persone rimaste, però, ne vanno fiere.
Gli uomini e le donne di montagna sono aggrappati alle loro realtà come licheni che si adattano a ogni circostanza.
A Natale, però, insieme al Bambino Gesù, rinasce anche questo piccolo borgo che si riempie di turisti e familiari in festa.

Luogo storico dell’Abruzzo Ultra durante il Regno di Napoli apparteneva nel secolo XII al feudo della Valle Siciliana di proprietà dei Conti di Pagliara.
In seguito passò ai Conti Orsini che furono padroni sotto Angioini e Aragonesi fino a che Carlo V nel 1526 lo consegnò al marchese Mendoza fino all'abolizione della feudalità.
Qui un tempo si lavoravano i metalli, si batteva il rame, si pettinava la lana.
I cardatori del paese erano famosi fino in Toscana e nell'Emilia.

Erano famosi anche i “sediai” che usavano materie prime locali, legno di faggio e paglia e i “casari” che, con sapienza, bollivano il latte della munta per porlo nelle “fuscielle”.
La crisi cominciò a mordere sin dalle ultime battute dell’ottocento.
La pastorizia transumante fu decimata dal progresso verso le zone di mare, da tasse e balzelli vergognosi e dalla progressiva messa in coltura delle distese pugliesi del Tavoliere.
Un esodo biblico portò i pretaroli verso gli States, l’Argentina, l’Australia. I più fortunati emigrarono nel Lazio.

A Pietracamela, sono tanti i gioielli: il piccolo portale di San Giovanni, il campanile a vela, la meridiana e l’orologio, la chiesa di San Rocco, la casa de “li Signuritte” con le bifore del 400, lo stemma civico cinquecentesco, la piazza Cola da Rienzo cui sembra che il paese abbia dato i natali, la parrocchiale di San Leucio, l’antico vescovo di Alessandria.

Ginetta, quasi novantenne, se ne sta seduta sulla panchina con il ghigno di chi si chiede cosa ci faccia da quelle parti.

Sul suo volto brillano due occhi astuti, dallo sguardo ancora acuminato come lama di stiletto.


I corvi, intanto, tra gli inestricabili intrecci di rami sotto la piazza, rompono il silenzio con i loro versi strazianti.
I cra cra sono l’uno in sintonia con gli altri.
La vecchina con la voce stridula, scacciando una mosca inopportuna dal viso, mi dice: “O Rufflè mè, - che significa ragazzo mio - qui ci sta cchiù corvi che ommini”.

Anche se qui venissero cento cataclismi, lei sarebbe sull'uscio della sua casa ad attenderli.
Perché è una “pretarola” e di quelle che se ne infischiano delle rilevazioni demografiche che indicano un paese che muore.

lunedì 22 dicembre 2014

Una chiesa poco conosciuta ... e un congegno segreto che porta a Roma

Grazie all'amico Fabrizio Primoli! Suo l'articolo e sue le foto!

La disadorna facciata della chiesa dei frati cappuccini, a Teramo, costituisce uno dei più curiosi inganni che talvolta in mondo della storia dell’arte riserva a chiunque abbia modo di accostarsi alla visita e allo studio di un’opera architettonica.
Nulla, quel semplice prospetto frontale, rivela in realtà di ciò che questo gioiello architettonico custodisce al suo interno, né della sua storia. Storia che ha attraversato, certamente non indenne, i secoli e le vicende locali e nazionali.

Nata nel lontano 819 come complesso conventuale dedicato a San Benedetto, questa struttura ha ospitato nel 1570, dopo la partenza dei benedettini, i padri gesuiti e, cinque anni dopo, i frati cappuccini che lo abitarono fino alla soppressione del convento, avvenuta nel 1866 a seguito dell’incameramento dei beni ecclesiastici da parte dello Stato italiano da poco costituitosi.

Un tempo assai più vasta di come appare oggi, la struttura ha subìto nei secoli tanti e tali rimaneggiamenti, ognuno dei quali ispirato alle logiche e alle concezioni dell’ordine che al momento la gestiva, che ne hanno profondamente alterato l’originario assetto.


Dotato di orti, di cortili e di fabbricati accessori, questo si estendeva un tempo sino ad occupare parte dell’attuale Piazza Dante Alighieri e il Palazzo della Provincia.

Con la partenza dei frati cappuccini, nel 1866, le strutture del soppresso convento subirono sorti diverse: alcuni locali vennero destinati ad ospitare il nuovo Orfanotrofio “Regina Margherita”, altri furono alienati, altri ancora furono completamente urbanizzati e destinati all'ampliamento di aree esterne di pubblica fruizione.
La chiesa, invece, rimase aperta al culto e continuò a funzionare per lo scopo per il quale venne concepita ab origine.

Riguardo a questa, che pure nei secoli precedenti si trovò a subire trasformazioni imponenti, dalle fonti storicamente attendibili emerge che fu nel periodo della presenza dei frati cappuccini che venne eliminata l’originaria ripartizione in tre distinte navate, attraverso la sistemazione in aula unica con distinte cappelle laterali, a loro volta ricavate suddividendo l’originaria navata destra.

La facciata, come detto, è estremamente semplice. Realizzata in laterizio e travertino, presenta al centro un portale sormontato da una lunetta a doppia cornice: decorazioni con mattoni squadrati nella prima, con rombi in laterizio nella seconda.

L’interno del tempio, così stridente con la semplicità della facciata, è assai ricco di opere d’arte che, nel corso dei secoli, gli ordini religiosi e i fedeli comandarono. Ammiriamo così, sulla parete sinistra, una pregevole tela del 1661, opera del veneziano Pietro Gaia, raffigurante il Cristo crocifisso ai cui lati si ergono San Francesco e San Berardo, che offre in dono la Città di Teramo.

Di sicuro impatto visivo è comunque il monumentale altare ligneo, addossato all'abside rettilineo della chiesa: capolavoro del barocco, venne realizzato nel 1762 dall'ebanista Giovanni Palombieri.
Interamente in legno di noce, l’altare è dotato di due colonne a capitello corinzio che suddividono l’area verticale in tre settori, ognuno dotato di due pannelli, anch'essi in legno, dipinti con grande maestria e raffiguranti la Vergine contornata da San Benedetto e San Francesco, nella pala centrale, e diversi santi nei settori laterali.

Questa grande opera centrale, anch'essa a firma di Pietro Gaia, risale ai primi anni del XVIII secolo ed è posta esattamente dietro uno dei più spettacolari capolavori lignei della chiesa: il tabernacolo.
Opera di Giovanni Palombieri, è ad andamento verticale, in forma di piccola cappella, ed è riccamente intarsiato e decorato attraverso un sapiente utilizzo di vari tipi di legno: noce, in principal modo, con aggiunta di elementi in acero e ulivo.

Opere senz'altro di grande impatto visivo, questo altare e questo tabernacolo rappresentano difatti autentici capolavori della scuola dei cosiddetti “maestri marangoni”, veri e propri artigiani dell’arte della scultura lignea, assai vicini all'ordine dei frati cappuccini, di gran lunga autorevoli nel centro Italia e attivi soprattutto a cavallo fra il XV e il XVI secolo.

Esiste tuttavia una interessante curiosità su questo altare che non tutti i teramani conoscono.

Tipiche realizzazioni dei “maestri marangoni”, per l’appunto, tali grandiosi altari lignei costituiscono altresì uno straordinario esempio di ingegneria: una serie di congegni meccanici azionabili manualmente permette difatti di far scorrere su binari, invisibili dall'esterno, i pannelli che ornano l’altare stesso.

I dipinti posti lateralmente, i cassettoni, i pannelli delle sovrapporte sono tutti elementi in grado di scorrere orizzontalmente e, scomparendo dietro vani occultati, aprono alla vista nicchie e armadi nascosti normalmente invisibili.

All'interno di essi, nella nostra chiesa dei frati cappuccini, sono tuttora conservate decine e decine di preziosi reliquiari, sconosciuti ai teramani, che contengono centinaia di ossa e di resti mortali dei confratelli dell’ordine che abitava il convento e dei relativi fedeli.


Una quantità incredibile di rotule, vertebre, frammenti di ossa lunghe e altre reliquie che i frati cappuccini, da sempre dediti a questa pratica religiosa, hanno avuto modo di conservare intatti.

Siamo in presenza, in sostanza, di una minuscola replica, pur con le dovute proporzioni, di quanto è presente nella cripta della chiesa di Santa Maria della concezione dei cappuccini, in Via Veneto a Roma, nella quale interi ambienti sono decorati con ossa provenienti dai cimiteri dell’epoca.

Potrebbe apparire un paragone azzardato, forse, eppure, se ci si riflette bene, in entrambi i casi si tratta di una medesima opera.
Condotta con le medesime tecniche.
E ad opera del medesimo ordine religioso.

Sotto la croce di Cristo, in fondo, le distanze non contano neppure più.

lunedì 15 dicembre 2014

... E venne in mezzo a noi!

È bello, in occasione del Natale, riscoprire le rappresentazioni artistiche della Nascita di Gesù in provincia.
In verità le opere sulla Natività, nel teramano, si contano davvero sulla punta delle dita.
Sono tante le Madonne con Bimbo sia in pittura sia in scultura o in legno ma dipinti che raccontano la scena del presepe, qui da noi sono rari.

In un vecchio articolo del nostro maggiore esperto di arte, il professor Giovanni Corrieri, s’individuarono alcune Natività in forme diverse dalla pittura murale, come le espressioni artistiche della nascita del Salvatore su piattini di terracotta dipinti, oggi visibile nel Museo delle Ceramiche di Castelli e rinvenuti nell'ultima dimora del grande artista Aurelio Grue ad Atri, intorno agli anni trenta.

Bisogna render conto anche di una grande e famosa opera di oreficeria artistica: il Paliotto, nel Duomo di Teramo.
Tra le formelle argentee del grande Nicola da Guardiagrele, una di esse regala un’inedita Nascita nell'Adorazione, tra pastori in zampogna e cornamusa, illuminati dal Sole nascente. Con quest’opera siamo naturalmente al top dell’arte. Il Paliotto rappresenta un vanto per la nostra città.

Com'è logico, bisogna iniziare un piccolo tour delle nostre belle chiese, per scoprire tesori d’arte che raccontano, in pennellate mirabili, il momento dell’Incarnazione del Cristo.

Il più antico dipinto sulla nascita di Gesù lo ammiriamo, se riusciamo a trovare la chiave d’ingresso, nella bella chiesa campestre di Santa Maria di Ronzano, dedicata all'Annunziata, “Maria Apparens” di cui vedete la foto gentilmente concessa dall'amico Giovanni Lattanzi.

Nell'opera, la Vergine Maria ha un ruolo di primo piano.

È la protagonista indiscussa di un ciclo murale in cui, all'Incarnazione, posta sulla finestra absidale in modo da catturare il fascio di luce esterna e simboleggiare il momento topico per le nostre vite, segue il racconto della Visitazione e la conseguente Natività.

Nella Rappresentazione, esce un pochino con le “ossa rotte”, ridimensionato, il povero San Giuseppe, ubicato piccolo nel margine sinistro della scena, come un personaggio secondario.

Altra importanza riveste, invece, la Vergine che troneggia con la corona sul capo.
Secondo il professor Corrieri, questa è la più antica pittura della Natività in terra d’Abruzzo che si può datare a dopo la metà del 1100.

Tra le poche scene di Natività artisticamente notevoli non possiamo dimenticare quella più bella del ‘400, opera del grande Andrea Delitio, custodita nella bellissima Cattedrale di Atri, nel cuore del presbiterio e nel ciclo dedicato alla “Vita di Maria”.

È una scena classica del presepe di Greccio, concepito da San Francesco d’Assisi con la grotta, il bue e l’asinello e il Bambino umilmente posto a terra. Giuseppe, a destra, è appisolato quasi fosse estraneo al grande avvenimento, mentre la Madonna è in posizione orante.

Dietro al giaciglio improvvisato, villaggi turriti su dei colli e folla di pastori e contadini che corre all'incontro con il Divino Bimbo.

Oltre mezzo secolo dopo, nella prima metà del ‘500, nel piccolo ma delizioso borgo di Tortoreto Alto, un pittore del nord, tale Jacopo Bonfini, affresca la minuscola chiesa di Santa Maria della Misericordia e regala un’altra opera immortale, oggi restaurata.
Il Bambino è nudo, contrariamente al dipinto di Atri, dove si ammira fasciato, gli angeli volteggiano felici.
I Magi in corteo appaiono in lontananza mentre scendono dal dirupo soprastante.

L’ambiente circostante pare essere la pianura sottostante i monti della Laga, come se l’autore amasse particolarmente i luoghi meno conosciuti del teramano.
Questo particolare, però, non è stato mai oggetto di studi da parte di esperti dell’arte.


martedì 9 dicembre 2014

A Teramo le opere d'arte le nascondiamo!

I beni culturali ecclesiastici in Italia, eredità di popoli e millenni, costituiscono almeno i due terzi dell’intero patrimonio nazionale.
Non potrebbe essere altrimenti se guardiamo alle cifre: su 95 mila chiese, 30 mila di esse sono ai massimi livelli della storia, i santuari si avvicinano al numero duemila, i monasteri toccano le cinquecento unità, così come le abbazie.
Numeri impressionanti elaborati qualche tempo fa dal Censis.

La massima diffusione di “loca sacra” è nel centro nord.
E queste emergenze religiose, storiche e culturali non raccontano di un’unica civiltà come accade ad esempio all'Egitto o alla Grecia.

Da noi, le opere rappresentano infinite civiltà che si sono susseguite senza sosta, nel nostro territorio.

Sono partito da lontano per raccontarvi cosa di brutto accade in una città, la nostra Teramo, dove la cultura a volte viene negata alla sua naturale funzione che è quella di essere diffusa.

Alla non fruibilità di un mosaico pregiato come quello del Leone, chiuso all'interno di Palazzo Savini, si aggiunge un altro “delitto culturale”.

Pochi sanno, infatti, dell’esistenza di un’opera d’arte insigne, celata al popolo teramano e ai turisti che si avventurano fino in città.
Parliamo di un affresco sacro di notevole importanza documentaria e storica, non accessibile a cittadini e visitatori, quasi nascosta nell'ex convento di San Francesco, adiacente alla chiesa di S. Antonio, nel centro di Teramo.
I locali di proprietà demaniale, per molti anni occupati dall'Intendenza di Finanza, oggi sono utilizzati, guarda caso, dalla Soprintendenza Archeologica ai Monumenti. Questo è l’ente deputato alla salvaguardia dei Beni Culturali, quello cioè che tutela e favorisce le opere d’arte di cui sono proprietari unicamente i cittadini.

Si tratta di una lunetta dipinta, ubicata in un ex passaggio di comunicazione tra il chiostro e la chiesa, chiuso anteriormente al 1448 e decorato.
È un dipinto sacro, due finestre di bifore del Trecento che, in antica epoca, faceva parte del portico, lato nord del convento dei Padri Francescani.
Oggi questo luogo è usato per un ufficio, dopo che l’utilizzo per molti anni era stato di deposito materiali di risulta.

L’opera sarebbe stata realizzata da un monaco della seconda metà del ‘400 e rappresenta l’immagine della “Pietà”.
Il dipinto è solo uno di altri affreschi esistenti lungo il perimetro del portico, ma ha una peculiarità che lo rende ancor più importante.

Le due iscrizioni, in basso lateralmente, testimoniano la grande importanza devozionale: chi ammira e prega davanti all'opera può lucrare un’indulgenza antichissima.

Il testo latino, infatti, recita più o meno:
“San Gregorio e altri Sommi Pontefici e tutti coloro che, veramente pentiti e confessati, s’inginocchiano davanti all'immagine della Pietà e pregheranno, avranno ventimila e sette anni giorni di piena indulgenza e questo è confermato dal Papa Nicolò V, anno Domini 03.01.1448”.

L’altra scritta, alla base della lunetta, è una profonda preghiera al Santissimo appeso alla croce, incoronato di spine.
Si chiede di essere liberati dall'angelo del male che porta con sé il peccato.
Al Cristo abbeverato di fiele e aceto si chiede la liberazione dalle piaghe dell’anima.
L’incisione in latino, termina con l’eloquente frase: “Che la Tua morte sia la mia vita!”.

Al valore devozionale di questa bellissima catechesi muraria sul peccato e la misericordia di Dio, si aggiunge anche la pregevole rappresentazione.

Il Cristo esce dal sepolcro col cartello INRI, tra la Madonna in preghiera e San Francesco, munito di piccola croce, intento alla sua famosa preghiera al Crocifisso.
Attorno a Gesù ruotano, come in un unico filo narrativo, i simboli della Passione: la lancia, la pertica con la spugna, il flagello, le dita incrociate a scherno, la canna scettro, la scala e la tunica rossa coi dadi.

Ci sono anche delle incongruenze nell'opera che di certo non diminuiscono l’importanza ma che è interessante rimarcare:
San Giovanni Battista non è rappresentato come di consueto, vestito di pelli e con torso nudo, al contrario ha una tunica rossa e in mano un libro, così da poter essere scambiato per l’altro Giovanni, l’Evangelista.
Inoltre un qualcosa di incomprensibile la propone la figura di S. Antonio da Padova che, anziché il giglio, porta con se una palma, simbolo del martirio.

Infine, nella lunetta,l’autore attribuisce la famosa frase :”Ego sum lux mundi” al Padre anziché al Figlio!

lunedì 24 novembre 2014

Storie di vita lungo la valle sconosciuta del Fino!

Giuseppe lavorava come arrotino.
Girava con la sua mola l’Italia per diversi mesi l’anno.
Poi in estate tornava nella vallata per dare una mano nel periodo della raccolta.
Oggi vive nella campagna tra Montefino e Bisenti.
Il dolore di testa a novanta primavere, non sa cos'è.

Ha soltanto un po’ di tiroide ballerina e la dentiera che fatica a stare al posto suo.
Sul muro, incorniciato, c’è un vecchissimo depliant turistico di un’epoca che non c’è più.
L’invito è singolare:” visitate l’Aeropoli vallata del Fino attraverso il pianoro della città del silenzio”.

Il vecchio mostra una pubblicazione del Touring di oltre cinquanta anni fa, dove si legge: “Scendendo da Bisenti verso Castiglione, sulla sinistra, come nido feudale, le povere case di Montefino…”.
Il tempo pare essersi fermato in questo borgo immerso nel silenzio quasi sacrale, rustico e compatto con le sue case addossate su di una collina di calanchi, in pietra grigia, molte prive d’intonaco, ma comunque affascinanti a vedersi.
Sono aggrappate l’una all'altra e circondate da muraglioni di sostegno.

Bella la storia del nome che dal lusinghiero Montefiore, era passato a un orribile Montesecco, in ossequio al fatto che i calanchi rendevano difficili le colture in mezzo a terre argillose e secche.
Poi, nel 1865, in barba alla fisionomia aspra dei grossi banconi di roccia arenaria sui quali sorge l’abitato, il nome divenne, definitivamente, Montefino
Le vecchie abitazioni, si legge ancora:
“Disegnano contro il cielo, un profilo piuttosto ingrato, ingentilito solo da un campanile quadrato dalla punta assai svelta”.

L’anziano uomo ha un fremito quando mostra la foto della sua Enrichetta.
La donna è partita in cielo, quasi in silenzio, un paio di estati fa.
La foto la ritrae con l’immancabile gonna lunga a fiori con sopra il golfino color del cielo, i capelli raggruppati dietro la nuca con la forcina.

Curava l’orto, rammendava, cucinava manicaretti da Dio e a sera si godeva il tramonto seduta sulla sua amata sedia di vimini.
Per anni la donna ha lavorato alla produzione artigianale dei cesti in vimini.
Nella valle del Fino era una risorsa importante, insieme alla lavorazione dell’uncinetto e del ricamo in stoffa.
Ancora oggi le anziane del paese non hanno nulla da imparare da altre realtà più pubblicizzate come i tomboli di Pescocostanzo e i ricami di Canzano.
Manufatti di alto artigianato ormai introvabili o quasi.

Un'altra attività femminile era l’allevamento del baco da seta.
Una pratica questa che richiedeva manodopera esperta e assiduo lavoro di gruppo.
Tutti ricordano la figura di donna Rachele che, giunta a Montefino per assistere il fratello parroco, si mise all'opera insegnando i dettami di questa difficile arte a tutto il paese.

Scappo alla scoperta di Bisenti.

Nella Bibbia, amici miei, si legge che fu Noè, quello del Diluvio Universale e dell’arca, a inventare il vino e gli piacque a tal punto, che fu protagonista della prima sbronza nella storia dell’uomo.

Vallo a dire agli abitanti di Bisenti.
Da queste parti la produzione del vino Montonico è qualcosa di sacro, sin dai tempi più antichi.

Popolato già in età preromana, questo grande borgo alla destra del corso del fiume Fino, apparteneva nel XII secolo all'abbazia di Montecassino e per anni in questo territorio si sono succeduti gli Sforza, i Fallerio, gli Acquaviva, che hanno contribuito a rendere illustre la storia del paese.
C’è da non perdere l’antica torre medioevale, la splendida Casa Badiale dell’anno del Signore 1474, la Fonte Vecchia, il Loggiato di chiaro impianto medioevale, ma, soprattutto, la stupenda Santa Maria degli Angeli, fastosa basilica con il suo campanile di 40 metri, ricca di affreschi artistici, che custodisce una statua della Madonna, definita dagli esperti uno dei capolavori dell’arte sacra in Italia.
Bisenti ha anche il suo spicchio di mistero e leggenda.
Superato il ponte sul Fino, prima di giungere al centro, 50 metri dopo il bivio per Arsita, è visibile un’antica casa in pietra.

Gli abitanti giurano che quella era l’abitazione di Ponzio Pilato, ricordate il procuratore romano della Giudea, che condannò a morte Gesù e che s’inabissò per fuggire dagli sgherri dell’imperatore Vespasiano nel piccolo lago incastonato nei monti Sibillini?
Verità o leggenda?
Fatto è che in paese un rione è ancora oggi dedicato a Pilato, che nella casa ci sono antichissime cisterne romane con un pozzo che si dice sia collegato tramite una serie di cunicoli alla Fonte Vecchia e che anni addietro qualcuno ha ritrovato antiche monete molto simili ai sesterzi usati dai romani e, dicono, dal centurione amico di Pilato, che trafisse il cuore di Gesù, proveniente da una ricca famiglia di Lanciano.

Resta sempre difficile spiegare perché una valle tra le più affascinanti dell’entroterra teramano come quella solcata dal fiume Fino, sia così trascurata e sconosciuta.
Il fiume omonimo attraversa questo tortuoso pezzo d’Abruzzo, prima di unirsi all’abbraccio gorgogliante delle acque del Tavo.
La natura incontaminata, gli scorci incantevoli, la storia e tradizioni antichissime, le testimonianze di un passato glorioso, sono i valori aggiunti per una terra di colture e di vita contadina, zona di piccole proprietà e di onesto e quotidiano lavoro.
La valle del Fino è un susseguirsi di dolci colline, boschi, campi coltivati, sempre dominati dalla mole possente e aspra ma in qualche modo rassicurante, della dolomia del Gran Sasso.
Ancora oggi questo spicchio di provincia, è un mondo che ispira, spinge a confrontarsi con la grandiosità della natura e a interagire con essa.

Arsita è a pochi chilometri di distanza.
Pare vivere in una sorta di dolce arrendevolezza, popolata da gente tranquilla che sembra aver assimilato dentro la quiete dei vicoli.
La vita qui ha un diverso valore di esistenze urlate e portate oltre ogni limite.

Tutto intorno, le colline sono da quadro impressionista.
Lo scatto dell’amico Sergio Pancaldi, fotografo di razza, rende mirabilmente la dolcezza d’insieme.

Una descrizione del 1889 di Palmiro Premoli, recitava così:
“Le alture appaiono in tutta la loro maestosa imponenza.
A sera, quando l’astro maggiore è sceso dietro agli Abruzzi e sulle cime non isplende più che una fiamma porporina, sembra quasi di vedere i picchi delle rocce fondersi in un mare di fuoco” .

E’ sera, infatti, ed è ora di intrattenerci piacevolmente in gastronomia: maccheroni alla molinara, mazzarelle, tagliatelle e fave, agnello alla brace, contorni di verdure dell’orto.
Che bella la vita!



Come raggiungere la valle:

L'itinerario più panoramico parte dalla stazione climatica e soggiorno estivo al mare Adriatico di Silvi Marina, tra Teramo e Pescara. 
Si attraversa la panoramica strada statale 553 che porta alla città d'arte di Atri. 
Proseguendo lungo la provinciale si giunge a Villa Bozza e poi Castilenti. 
Lungo la S.S. 365 si giunge a Bisenti. 
Poi si prosegue per la testa della valle ad Arsita, dove partono bei sentieri escursionistici. 
Da Bisenti è anche facile raggiungere la valle del Vomano per scoprire Basciano e Penna S.Andrea. 


mercoledì 12 novembre 2014

Il gioiello campestre di Santa Maria de Praedis

Il silenzio è avvolgente.
Il profumo delle colline boscose pare penetrare nei polmoni.

La passeggiata sul Colle Piadino, tra Pantaneto, Colle Caruno, Fonte del Latte, si snoda lungo la strada, ma di auto circolanti neanche l’ombra.

Qui è un susseguirsi di minuscoli agglomerati del suburbio teramano dei quali il più importante è Castagneto, il cui toponimo prometterebbe tanti alberi di castagno che oggi non ci sono più.
La storia ricorda l’avvenimento più importante, in piena dominazione spagnola, sul finire del XVII secolo.
A causa delle ciurmaglie dei briganti celebri come Santuccio da Froscia e Titta Colranieri, il borgo fu bruciato, insieme alla vicina Ioannella, da parte del capitano Gaspare Zunica.

Ho incontrato nel mio cammino solo un trattore con sopra un vecchio che non so perché ha sghignazzato evidentemente divertito, prima di scomparire dai miei occhi col suo cigolante mezzo, antico più del padrone.
Qua e là si aprono, improvvisamente, prati quasi tumefatti dalle ombre del primo pomeriggio e casolari dal tetto fumante.
Poi, in fondo alla valle, lo sguardo s’impossessa di una Teramo un tantino caliginosa mentre, tra un sipario e l’altro di nubi, compare la cresta del Gran Sasso e le montagne suddite intorno a corolla.

Tutto molto bello, tra colli con pochissime fasce di cemento che non inghiottiscono ancora le piccole cascine storiche e i campi coltivati.

A volte capita che il nostro piccolo e caotico mondo si fermi anche per un solo attimo.
È allora che la bellezza si svela e il sacro silenzio ti parla.
Le ginocchia traballano un pochino per la fatica, ma non mollo.


La chiesina campestre di Santa Maria de Praedis non è lontana.
In questi luoghi, che i teramani disertano, c’è più di una chiesa che vale la pena visitare: San Pietro ad Azzano in località Costumi o la famosa San Bartolomeo di Villa Popolo di Torricella.

Distante e di molto dalle grandi vie di traffico, questo luogo sacro di Santa Maria meriterebbe ben altra attenzione, quella che non le dà quasi nessuno.
Eppure possiede valori immensi sia religiosi sia archeologici, storici e perché no, ambientali di alta collina.

All'ultima curva un cane pastore si avvicina a brutto muso e per un attimo temo l’assalto rabbioso. All'improvviso, provvidenziale, si palesa un contadino di alta statura che sta risalendo il piccolo fosso verso il suo casolare.
Sembra Mauro Corona, canotta nera, bandana di ordinanza, capelli grigi che sicuramente cadrebbero sul volto se non fosse che appare incipiente la calvizie.
Dal ciglio della strada urla qualcosa d’incomprensibile ma la bestia pare aver capito perché si allontana subito dalla mia figura.

Ed eccomi finalmente davanti all'oggetto dei miei desideri.

Santa Maria è un piccolo tempio in stile romanico a tre navate, edificato nella notte dei tempi sui resti di una villa romana, dicono, anche se alcuni studiosi ipotizzano che qui ci fosse un sito dedicato alla dea Feronia.

In epoche ancora precedenti pare che l’antico insediamento fosse il “villaggio Praedis”, luogo molto frequentato sin dall'età del ferro.

Come dimenticare che qui furono rivenuti mirabili frammenti di ceramica del tempo dei Pretuzi, travertini o ancora rimasugli di statue romane e anche reperti medievali?
Sono affascinato nel guardare questo piccolo edificio sul ciglio della strada con il suo mini cimitero dall'inferriata del fianco destro.

Ho sempre creduto che l’arte sia l’ombra di Dio sulla terra.
Ricordo che più di una volta il grande e indimenticabile Giammario Sgattoni, mi parlò di quest’antico luogo denominato “Praedis”.
Con la sua voce baritonale e il suo largo sorriso, mi sorprendeva sempre con la sua immensa cultura.
Ora sono qui, ad ammirare questa che è una delle chiese più antiche del teramano, sorta nel secolo X, le cui pietre sembrano provenire dall'antico castello medievale che un tempo dominava la valle sopra Pantaneto!

Immagino cocci e pietrame sconvolti dai vomeri profondi.
Penso con dolore, a cosa possa essere accaduto a tanti reperti, statuine o altro, disseppelliti sui campi dinanzi casa e rivenduti forse per pochi soldi.
Butto l’occhio su alcune tombe del cimitero.

Una di esse ha la croce che ha perso il suo lato destro che penzola arrugginito e scricchiolante al vento.

Ripenso alla frase latina che trovai su di un piccolo cimitero in Alto Adige.
Mi stupii di questa locuzione:
“Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae”,
che tradotta significa che questo era il luogo dove la morte gode di soccorrere la vita.
Un’amara riflessione sulla caducità delle cose.
Mi pare che fosse mutuata da una lapide sulla porta d’ingresso dell’Ospedale degli Incurabili a Napoli, prima che arrivasse il santo dottor Giuseppe Moscati a portare speranza ai poveri.

Meglio concentrarsi sulla chiesa che ha una storia sontuosa che pare partire dal 1153 quando il vescovo Guido II annesse ai beni teramani la piccola pieve.
Questo tempio ha visto la sua ultima ristrutturazione da parte della Soprintendenza ai Beni Architettonici nel 1977 e oggi si presenta in perfetto ordine.


Castagneto e la piccola chiesa si raggiungono facilmente percorrendo sei chilometri da Teramo attraverso la strada che porta verso Ascoli Piceno e deviando al bivio di Castagneto appena fuori il capoluogo teramano.


lunedì 27 ottobre 2014

La fortezza borbonica di Civitella del Tronto: prodigio militare!

Qualcosa di prodigioso da visitare nella bellissima provincia di Teramo?

Certamente una tra le più imponenti opere di ingegneria militare dell’intera penisola:
la fortezza borbonica di Civitella del Tronto.

Si tratta di una roccaforte poggiata a nido d’aquila su di una cresta rocciosa, lunga poco più di mezzo chilometro e con larghezza media di quasi cinquanta metri, la cui costruzione fu iniziata nell'anno 1564, durante la dominazione spagnola e completata nel 1576.

Il baluardo prese il posto, come racconta un testo del civitellese Bruno Martella, di una precedente cinta muraria con cinque torri, opera della precedente dominazione aragonese, fortificazione del paese incastellato sotto. Esisteva anche un precedente fortilizio di epoca angioina che cingeva la cittadella più in basso.

Civitella del Tronto, con la costruzione dell’attuale forte, era diventata l’autorevole e famosa sentinella invalicabile dei confini più a settentrione del Regno di Napoli, caposaldo di un territorio importante nelle economie nazionali.
Il baluardo di Civitella ha scritto pagine di enorme importanza storica sia per gli avvenimenti che per gli assetti politici dell’Italia e dell’Europa e per le prospettive che si aprirono nella realizzazione, in seguito, dell’Unità d’Italia.
Tra gli assedi subiti, da ricordare quelli dell’esercito francese e, soprattutto, l’ultimo, lunghissimo e sanguinoso, avvenuto durante la dominazione borbonica a opera dei piemontesi di Vittorio Emanuele II, assedio preludio di quella unità cui la fortezza cedette per ultima e solo il 20 marzo del 1861.
Alla fine del sanguinoso conflitto, il forte fu in parte distrutto.

Oggi, dopo il riuscitissimo restauro degli anni ’90, la fortezza offre veramente uno splendido viaggio nel tempo e nella storia, grazia anche al museo ubicato al suo interno.

Nei locali si conservano documenti, stampe, oggetti, plastici e armi degli anni di assedio.
Visitare il forte è veramente viaggiare nel tempo, tra piazze d’armi, corpi di guardia, carceri, furerie, resti del palazzo del Governatore e residenze degli ufficiali, oltre ad ammirare i solidi bastioni di difesa e un panorama da urlo.

Infatti nella parte alta c’è un colpo d’occhio fantastico:
Gli incombenti monti Gemelli con le gole del Salinello, paradiso naturale;
la vicina e bellissima città di Ascoli Piceno;
la collina del convento benedettino di Monte Santo, da dove iniziavano i territori dell’allora Stato Pontificio confine con il Regno di Napoli;
la località di Villa Passo, antica zona doganale;
il mare Adriatico, dopo la valle del fiume Vibrata.

Dal bastione più alto e dai camminamenti di ronda, si può ammirare anche l’incastellamento del paese vecchio con le sue caratteristiche e strette vie necessarie alla difesa contro le artiglierie nemiche.

Civitella del Tronto con la sua fortezza, merita sicuramente una visita!


Come arrivare:

Da Nord
Dall'autostrada Adriatica A14 direzione Ancona, seguire la drezione San Benedetto del Tronto - Ascoli Piceno, continuare sulla superstrada Ascoli-Mare RA11 fino all'uscita di Ascoli, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

Da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 direzione Pescara, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare sull'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

Da Chieti
Percorrere la SS 81, imboccare l'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, proseguire lungo la SS 81 direzione Civitella del Tronto.

sabato 25 ottobre 2014

Bastioni sulla storia: Il mito di Civitella del Tronto

Gli sposi, in tight nero lui, in candida veste di organza lei, con tanto di cappellone stile inglese Regina Madre.
Entrambi posano entusiasti e affranti dai mille preparativi alla cerimonia, davanti alle sontuose architetture della fortezza borbonica.
Attraversano le antiche vie di Civitella del Tronto come integrati in una set di un film di Spielberg, con dietro l’inevitabile codazzo di rumorosi invitati.
Quale migliore location di questo incantevole borgo medioevale per decretare il loro sì?

“Una terra dove il sole non muore mai dietro le montagne gemelle, arcigne a guatar severe …”
Così scriveva nell'anno Domini 1485 il dotto Padre Silvestri, strenuo indagatore delle nostre origini.
Si racconta che questo monaco benedettino, originario delle Marche, fosse giunto in questo villaggio abbarbicato su di un erto costone roccioso sui 600 metri, intorno al suo fortino, perché devoto alla marchesa di Toscana, quella Matilde di Canossa che l’iconografia storica presentava bellissima nella sua alterigia e di origini longobarde.
L’abate scriveva infuocati versi d’amore nei confronti di lei che chiamava “Duchessa” per non svelare il nome.
Si sa, le voci corrono e il religioso fu espulso dall'Ordine e interdetto a viaggiare all'interno dei territori dello Stato Pontificio.

Sentinella silente di un confine invalicabile del Regno della meridionale Napoli, centro di grande valenza strategica tra Ascoli e Teramo, dall'alto di Civitella si dominano tutte le vallate intorno.
Una manciata di case dalle pietre abbrunite, all'ombra dei bastioni immani di una fortezza che ha conosciuto fasti e rovine, storia e tradizioni.
Civitella è un paese dalle abitazioni digradanti in piani paralleli sotto un’imponente muraglia, aggrumato intorno al belvedere di Piazza Pepe.
Affacciati sul parapetto del muro in pietra, la montagna dei Fiori si staglia nitida nel cielo terso, più in là il Foltrone e in mezzo alle due vette il boscoso cuneo dell’orrida gola del Salinello, regno del mistero e delle vicende storiche del Re Manfredi e la sua rocca.
A meridione la spettacolare catena del Gran Sasso e, a seguire la dea Maiella, evidentemente ancora innamorata dell’aspra dolomia confinante.
In piazza, la cinquecentesca Parrocchiale di San Lorenzo addossata all'antica porta d’ingresso del borgo, attira i visitatori con la sua pietra civitellese con cui è costruita e il portale rinascimentale di elegante semplicità.

Ed è bello, aggirarsi per le antiche  e strette vie del borgo anche oggi che c’è mercato in piazza.
Un carosello di colori, di voci, di personaggi particolari che fatica di certo a sopravvivere ai nuovi modelli di distribuzione.
La frutta con le piramidi di mele, di arance, i carciofi che da una cesta mostrano solo la testa, una composizione di radicchi che esprimono tutta la loro freschezza, una cassetta di zucchini con il loro fiore. Tutto è colore, anche la voce dell'ortolano che comunica la sua offerta.
Su di un vecchio banco si vende porchetta fumante, proveniente neanche a dirlo, da Campli e poi trippa all'ascolana fatta in casa, olive fritte con cremini; più in là dalla vetrina del banco del macellaio si vede un omone con una grande mannaia, tagliare, con perizia antica, bistecche da una bellissima costata. Nei ristoranti le donne di cucina ammassano le proverbiali “ceppe”da condire col sugo di papera.
Ogni personaggio è un protagonista, qui non ci sono comparse e controfigure.
Ogni angolo dovrebbe essere fotografato, ogni individuo raccontato nei particolari.

Civitella del Tronto non è solo questo.
E’ la storia con la S maiuscola che, in mancanza di notizie certe, potrebbe risalire a un’epoca ancor prima del mille.
Gli storici non si pronunciano. Per loro si parte dal IX secolo, periodo in cui nasce il fenomeno italico dell’arroccamento delle popolazioni rurali a difesa contro barbari e pirati.
Eventi storici fluidi modellati da mille cambiamenti e turbolenze nel mondo feudale dell’intero Abruzzo, fino al sopraggiungere della dominazione normanna.
Qui, un intreccio di leggende. Una racconta dei natali dati dal villaggio al Papa Leone II, un'altra data anno Domini 1053, racconta della prigionia di Papa Leone IX da parte dei Normanni che lo avrebbero portato in ceppi e catene in una grande reggia a Benevento dove scontare un’ingiusta condanna.
Fu con il già citato Carlo I dì’Angiò che iniziò la valorizzazione della fortezza che, nei secoli seguenti, divenne famosa nel mondo per le sue caratteristiche difensive militari manifestando i segni di una tipologia costruttiva tipica di quei centri cui è demandata l’importante funzione di presidio perenne e tutela dell’assetto politico di un territorio.
Seguirono secoli di gloria, con assedi di mesi e mesi a questa fortezza quasi inespugnabile.
Cambi di poteri dinastici, viaggi attraverso governi del vice regno, occupazione francese, monarchia borbonica, brigantaggio e calamità varie, fino all'Unità d’Italia del marzo del 1861 quando il forte, baluardo contro le armi piemontesi, scrisse le ultime pagine di gloria.

Davanti agli occhi le auliche architetture della trecentesca Chiesa di San Francesco con la sua facciata romanica impreziosita da un rosone intagliato di rara bellezza.
L’anziano seduto sul muretto ride divertito e dice che il rosone non è farina del sacco dei civitellesi i quali, amanti del bello, lo rubarono agli odiati camplesi, trafugandolo dalla chiesa farnese dedicata al poverello d’Assisi.
Ricordo che questa storia mi fu narrata anni fa dal parroco di Campli don Antonio Mazzitti che si diceva convinto che altre opere alloggiate nella città fortezza provenissero proprio dal borgo d’arte camplese.

Il viaggio nella storia e nel presente di questo borgo non può prescindere dal convento francescano della Madonna dei Lumi, in una collinetta vicina, dove un’antica leggenda racconta un fatto misterioso: amici conversavano quando di colpo interruppero le loro chiacchiere, abbagliati da tante luci e fiammelle che, arrivando dal fondo della valle, iniziarono a danzare ordinatamente intorno a loro per poi sparire.
Da quel momento questo spettacolo si replicò più volte fino al 1663, ultimo spettatore un monsignore che cadde, ginocchia a terra, giurando di essere stato sfiorato dal soffio mistico della Vergine.
Ecco perché il Convento è dedicato alla Madonna dei Lumi o della Lumera dispensatrice di tanti miracoli e guarigioni.
Ecco perché la Vergine ancora oggi veglia sul paese fortezza.



ARRIVARE A CIVITELLA DEL TRONTO:

A24 RM-TE uscita Teramo/ proseguire lungo la SS 81 direzione Campovalano/ Civitella del Tronto da Napoli: A1 NA-RM uscita Cassino/ proseguire in direzione Sora/ Avezzano/ A25 direzione L'Aquila-Teramo/ A24 uscita Teramo/poi strada per Campli Civitella del Tronto, Ascoli Piceno 

sabato 26 luglio 2014

La chiesa dedicata alla mamma della Vergine Maria a Teramo!

La piccola chiesa di S. Anna dei Pompetti, nella piazza omonima di Teramo, la più antica della città, era dedicata un tempo a San Getulio, religioso molto amato nel teramano.
Fu molto probabilmente eretta nel periodo bizantino, circa VI secolo e questo la rende uno dei monumenti più vetusti d’Abruzzo. Le notizie sicure si datano comunque dal secolo IX, anche se dagli scritti della nostra teramana la studiosa Anna Maria Cingoli, scopriamo un documento iniziale dell’897 dove si racconta di una donazione a favore del vescovo di allora del conte aprutino Manfredi.

Oggi questo tempio rappresenta un cospicuo resto dell’antica cattedrale di Teramo di Santa Maria Aprutiensis, anteriore al secolo VIII, edificata su di una domus privata romana e distrutta dal barbaro Roberto di Loretello detto di Basville e le sue truppe nell'immane incendio che devastò la capitale dei Pretuzi
a metà del XII secolo.
La cattedrale era grande e si estendeva in larghezza fin dove poi fu costruito il bel palazzo della famiglia Savini, ancora oggi esistente e adiacente la piazza.
In quel tempo Teramo era governata dai conti aprutini, dipendenti dal re normanno Ruggero II.
I principi del regno di Sicilia approfittarono della morte del re nel 1154 e della salita al trono del debole figlio Guglielmo I, per inscenare una profonda ribellione che sfociò in una guerra nella quale l’epilogo fu la terribile messa a sacco della cittadina teramana. Come per un miracolo e i teramani ne furono convinti, le spoglie del glorioso San Berardo rimasero illese, nascoste com'erano sotto delle pietre di una minuscola cappella a lui dedicata.
A Teramo rimase in piedi qualche mura di Santa Maria a Bitetto, la piccola casa medievale dei Francesi di cui parlo in altre pagine del blog e parte del chiostro nel convento francescano delle Grazie. La torre accanto
all'antica cattedrale fu bruciata e oggi è visibile la parte più bassa proprio dietro l'ingresso del tempio.
Tant'è che l'intero quartiere è conosciuto come quello di "Torre Bruciata".
Del vasto edificio rimase solo una piccola parte di cui erano in piedi tre minuscole campate e il presbiterio.
Quel che resta della domus e dell’età romanica è ben visibile all'interno della chiesa attuale.
L’antica cattedrale raggiunse la massima importanza certificata da una bolla del 27 novembre 1153 di papa Anastasio IV che la definì “sede permanente dell’intera diocesi aprutina”.

All'interno da vedere c’è la bella statua di cartapesta raffigurante S. Anna con la Madonna bambina, appena restaurata e restituita al culto in questa settimana di luglio e un antico affresco in fondo al piccolo presbiterio di autore sconosciuto.

mercoledì 16 luglio 2014

San Pietro alla Ienca: dove Wojtyla amava pregare!

L’imponente statua bronzea di Karol Wojtyla, capolavoro d’arte sacra dello scultore Fiorenzo Bacci, mi accoglie proprio davanti alla chiesetta montana di San Pietro alla Ienca.
Mentre arrivavo in questo luogo bellissimo, da dove si gode la vista di boschi immensi, si discuteva sul nome. In qualche sito internet troviamo Ienca con la J, in altri è lo Ienca e non la Ienca, addirittura nel sito della Regione in un punto si trova indicato con la G!
Rimane comunque, di là dalla disputa sull'etimologia, un posto bellissimo.
Guardo intensamente la figura del papa santo che, avvolto in vesti liturgiche, pare vera. Gli occhi appaiono rivolti al futuro e con la mano benedicente pare indicare che il cammino verso il Regno dei Cieli passa attraverso la splendida valle del Vasto, ai piedi del Gran Sasso.
Le sopracciglia e le pieghe caratteriali del volto leggermente corrugato, sembrano formare il disegno di una colomba e i piedi scalzi, come novello San Francesco, ricorda la sua infinita voglia di pace nel mondo, che ha ricercato senza posa per tutto il suo pontificato.
Il “Totus tuus”, motto del suo papato, ricorre idealmente nell'immagine del Cristo Risorto sulla sua mitria, mentre dei piccoli chiodi ricordano l’immensa sofferenza degli ultimi anni di vita. Sulla stola c’è la celebre frase “Non abbiate paura”, che disse ai giovani nella ormai famosa prima Giornata della Gioventù.
Nella mia mente torna un’immagine molto cara: il ricordo di una Pasqua in cui la televisione mostrava un diacono incensante che cantava il testo evangelico della solennità. Il religioso, finita la proclamazione, richiuse il testo sacro, lo elevò e lo portò, processionalmente, verso Giovanni Paolo II che presiedeva la celebrazione liturgica. Fu allora che le telecamere, impietose, indugiarono su di un pontefice sofferente che, con gran fatica ma con gioia negli occhi, accolse baciando il libro dalla legatura argentea tempestata di gemme, per poi benedire l’assemblea tutta.
Oggi, fresca mattina di un giugno del 2014, il borgo di San Pietro è vuoto.
Il minuscolo abitato è uno dei tanti agglomerati sub urbani che nel secolo XIII, fondarono quella che poi sarebbe diventata la città dell’Aquila.
Quando la vallata si popolò grandemente, il piccolo villaggio divenne semplice appoggio per attività agricole e per pastorizia, luogo di scampagnate familiari e di camminate solitarie.
Le case abbarbicate su di uno sperone roccioso che sbarra il vallone del Vasto, grazie alle ripetute visite del “Papa Grande”, sono diventate famose per essere situate in uno dei luoghi dello Spirito più importanti d’Abruzzo, meta di interesse non solo religioso, ma anche turistico ed escursionistico – ambientale con i suoi bei percorsi per mountain bike o per cavalli e cavalieri.
I proprietari delle casupole che coronano la piccola chiesa e l’antico fontanile pastorale, hanno ristrutturato con garbo, grazie anche alla nuova vitalità commerciale dei dintorni.
Peccato che la chiave della chiesa sia irreperibile, persa nelle tasche del parroco locale che, naturalmente, è difficile trovare, perso com'è tra varie parrocchie distanti tra loro e impegni.
Giro, un po’ deluso, intorno al piccolo edificio che si trova a mille metri di altezza, risalente al secolo XIII, ammirando i suggestivi paesaggi boscosi. Dietro al tempietto si trovano anche posti, dove poter cucinare carne alla brace e mangiare in allegria.
Sbirciando dal buco della serratura, intravedo a fatica l’unica navata con la volta a botte in pietra. Sempre in pietra è anche l’altarino, luogo della mensa eucaristica.
D’improvviso, la voce sgraziata alle spalle mi fa trasalire.
Il vecchio pastore è caratteristico. Nell'immaginario davvero potrebbe essere il prototipo del transumante abruzzese.
L’uomo mi chiede cosa stia facendo.
Pensavo fosse chiaro, dico, che vorrei entrare per scattare qualche foto.
Ecco che lui si mette a raccontare una storia incredibile! Fu lui a vedere il papa, quando giunse su queste montagne, spinto dal suo amore per il creato e il suo Creatore.
Wojtyla, secondo lui, non è mai entrato in quella chiesetta! Ha pregato fuori le mura perché questa porta è di solito chiusa, mi dice, in chiara polemica con gli addetti comunali o forse col parroco.
Lui ha visto e parlato col papa polacco quel giorno in cui, seduto sullo sperone roccioso più alto verso la montagna, vide salire dalla stradina sbrecciata, una serie di automobili nere, di gran cilindrata e dai vetri oscurati. Le guardie del corpo, nella prima vettura, si fermarono davanti a lui e chiesero se conoscesse il papa.
“Figuratevi – disse il pastore- se pensavo al papa. Piuttosto mi preoccupavano i lupi che spesso qui divorano le mie pecore. Dissi agli uomini con gli occhiali da sole che ... io il papa lo vedevo ogni tanto nel telegiornale della sera, quando faccio cena”.
Si aprì automaticamente una porta della terza auto e dentro, sorridente, c’era proprio il polacco santo!
Il papa parlò qualche minuto col vecchio pastore, declinò ringraziando l’invito di recarsi a casa sua per un assaggio di ricotta e regalò all'uomo un bel rosario con lo stemma di San Pietro.
Il pastore ha onorato questo straordinario incontro, commissionando una stele in pietra, eretta nel punto in cui vide Karol in quel mattino.
Il papa è tornato altre volte, pregando anche nella radura fuori la chiesetta, arricchendo di sacralità il nostro Abruzzo, già attraversato, secoli prima, da un altro pontefice non meno grande, Celestino V, l’eremita del Morrone, l’uomo della Perdonanza.
Oggi San Pietro alla Ienca ha una sua identità, un pezzo di paradiso per tutti e non solo per qualche locale e solitario pastore o escursionista amante della natura.
Dall'abitato chi ha buone gambe può raggiungere il torrione roccioso dedicato al papa e già Monte del Gendarme, 2424 metri di altezza lungo le frastagliate creste delle Malecoste.
Il Gran Sasso serba anche il ricordo del papa alpinista Pio XI cui nel 1929 fu intitolata una cima in prossimità del Pizzo di Intermesoli.

San Pietro è tra Assergi e Camarda, uscita autostrada Teramo L'Aquila Assergi. 
Proseguire non verso Campo Imperatore ma sulla vecchia strada per Teramo via Capannelle. Distanza dallo svincolo autostradale, circa 8 chilometri

sabato 12 luglio 2014

Il teatro delle beffe!

Credo converrete con me che, in qualsiasi città d’Italia, un monumento come il Teatro Romano di Teramo sarebbe il classico fiore all'occhiello del turismo storico e architettonico dell’intero Abruzzo.
Le pietre secolari, raffinate e eleganti, testimoniano la vocazione multi millenaria della terra aprutina, testimone di civiltà antichissime che partendo dai Pretuzi, Fenici, fino ai Romani, caratterizzarono la vita sociale dei nostri luoghi.
Il monumento, al contrario, è segno di discordia e d’indifferenza.
Il meraviglioso Teatro che definirei “delle beffe”, continua da infiniti anni a essere un esempio poco edificante di mala tutela, assolutamente da non imitare, pur essendo, senza dubbio, il massimo bene archeologico in regione.
Insieme a esempi fulgidi come gli antichi centri di Amiternum, in prossimità dell’Aquila e Alba Fucens nel parco Velino Sirente, il teatro rappresenta un unicum anche per la sua posizione al centro della città e per quello che potrebbe rappresentare un percorso archeologico ineguagliabile, tra anfiteatro, terme e antiche
stradine romane.
Nonostante le traversie subite il monumento è il meglio conservato tra i teatri del Piceno.

Parliamo, a beneficio di chi non ha mai visitato Teramo, di un’opera prodigiosa dell’era augustea,(30-20 a.C.) uno dei massimi esempi dei tempi d’oro dell’antica Roma, costruita nel secondo secolo dopo Cristo con l’imperatore Adriano.
È un unicum di una città che è un incredibile concentrato di arte e storia, sottovalutata anche dai suoi cittadini che ignorano quale tesoro di percorso potrebbe nascere dalle pietre dell’Anfiteatro del I secolo, la Domus Romana e la successiva basilica del VI secolo d. C..
Oggi, dopo millenni e cataclismi, fra cui quello ultimo, disastroso del sisma nel 2009, il teatro è ancora lì, sebbene soffocato dall'indifferenza e da due obbrobri di palazzi, il Salvoni e l’Adamoli, che dai tempi del
fascismo vengono annunciati in prossimo abbattimento, ma che resistono imperterriti nel rovinare l’insieme e il colpo d’occhio in grado di arricchire il turismo in città.
È ancora al suo posto il vecchio teatro, sebbene rimaneggiato da vari interventi disastrosi come quello in cui la “cavea” venne deturpata dalle ruspe che fecero cadere delle arcate che oggi non esistono più.
Nel frattempo anche il vicino Anfiteatro è stato “violentato” negli anni’60 e ’70 quando improvvide licenze hanno permesso costruzioni come il palazzo vescovile della Curia, quasi raddoppiato nella sua ampiezza fino a toccare e in alcuni casi ad abbattere arcate di pietre millenarie.

Da anni ci si riempie la bocca di un percorso storico che regali, al visitatore, l’inedita sensazione di vivere come dentro una macchina del tempo, in una sorta di “Piccola Roma”. Si favoleggia da anni di un parco
archeologico urbano finalizzato ad una più ampia fruizione pubblica degli straordinari tesori archeologici della città antica della
Interamnia Praetiutorum, città parzialmente scoperta, molto saccheggiata ma che serba nel suo cuore pulsante gran parte delle sue autentiche strutture.
È chiaro a tutti che i palazzi sarebbero da abbattere. Chissà cosa uscirebbe ancora fuori dal sottoterra durante i lavori?
Se non avesse ragionato in questi termini lo storico e archeologo teramano, Francesco Savini nel lontano 1902, oggi non avremmo questa grande porzione di monumento storico con il suo fantastico fronte scena, i 24 pilastri con le arcate sovrapposte in opera quadrata di arenaria, numerosi muri radiali di sostegno e piccole scale di accesso alle gradinate.
Se Teramo prendesse a esempio la capitale d’Italia, Roma, che negli anni trenta iniziò un cammino di estrazione di quello che un tempo era la magnifica area dei Fori Imperiali, oggi la città sarebbe meno povera e più ambita da chi viene in Abruzzo.

Opportunismo, incuria, improvvisazione, indifferenza, imbrogli, speculazioni affaristiche, abbiamo visto di tutto nella storia recente del Teatro Romano e dei palazzi centenari che lo coronano.
Tutto questo continua coerentemente in località Ponte Messato della Cona dove, sul percorso archeologico della cosiddetta antica “via Appia teramana”, hanno costruito palazzine, sotterrando irrimediabilmente la
storia e soffocandola di cemento armato!

Tant'è! Nessuno può negare che la Regione Abruzzo, la Provincia di Teramo, la Sopraintendenza alle Belle Arti, il Ministero dei Beni Culturali e perfino il Comune, si siano mostrati negli anni inadeguati a gestire un problema d’immagine di enormi proporzioni.
Di questi esempi negativi l’Abruzzo è pieno! Si pensi all'attuale abbandono al suo destino dell’Aquila, la mancata valorizzazione di aree pregiate per la storia, penso al borgo medievale di Castelbasso, vicino a noi oppure la mancata riqualificazione di grandi conventi come quello di San Giovanni di Capestrano o delle numerose abbazie cistercensi, l’abbandono di antichi conventi, i numerosi ponti romani nel degrado assoluto.
Purtroppo la Storia, quella con la S maiuscola viene violentata giorno per giorno!
La speranza è che il progetto finanziato dalla Fondazione Tercas, fra le istituzioni più interessate al recupero, presentato alla Regione Abruzzo, prima o poi venga almeno preso in considerazione!

giovedì 10 luglio 2014

Il gioiello d'Abruzzo: Santo Stefano da Sessanio

Il borgo medievale di Santo Stefano di Sessanio è, tra i monumenti dell’uomo, forse il più suggestivo dell’intero Parco Nazionale del Gran Sasso e monti della Laga.
Il piccolo paesino, che vanta anche esempi rinascimentali, situato alle pendici del versante meridionale del massiccio più alto degli Appennini, si trova a un’altezza di 1251 metri sul livello del mare.
Parliamo di un abitato costruito prevalentemente in pietra bianca calcarea locale, brunita e resa opaca dal tempo.
I tetti, con i suoi larghi coppi, offrono al visitatore un’armonica visione d’insieme, in parte rovinata dal disastroso sisma del 2009 che ha raso al suolo, irrimediabilmente, la singolare e caratteristica torre medicea del Trecento, che dava un tocco ulteriore di classe e arte di decoro architettonico da cui partiva l’abitato strutturato in ellissi concentriche e altrettante scalinate ripide.
Il nome del paese “di Sessanio”, risale al latino Sextantia, appellativo con cui veniva chiamato il piccolo pagus romano che un tempo era ubicato nei pressi dell’attuale chiesa dedicata al Protomartire Stefano, ai piedi di un colle su cui sorse, in seguito, il villaggio. Sextantia era a sei chilometri dall'importante "pagus" dedicato a San Marco tra Castel del Monte e Calascio.
Da non perdere la passeggiata a piedi lungo le strette vie e le erte gradinate, i tortuosi selciati che si insinuano tra le case e i percorsi inediti ricavati sotto le case e creati per difendersi dai rigori dell’inverno e dalle sue intemperie.
Del dominio della famosa famiglia dei Medici rimangono bei loggiati dalle linee pure ed eleganti, piccoli portali disposti ad arco con formelle fiorite e singolari bifore, gioie per gli occhi di esperti dell’architettura.
Lo stemma che ancora oggi campeggia sulla porta d’ingresso a sud est della Signoria di Firenze, testimonia i granelli di civiltà raffinata, di cui secoli fa godette questo minuscolo borgo pastorale, tutto da vivere con massima attenzione. Solo riservando la giusta concentrazione alla visita, il turista potrà scoprire piccoli edifici, case fortificate con palazzotti gentilizi del Quattrocento, balconi in pietra da cui godere spettacoli di paesaggio. In alcuni scorci è possibile abbracciare con lo sguardo le valli del Tirino e dell' Aterno, fino a scoprire pezzi del massiccio della Majella e la catena montuosa del Sirente, nel territorio di Avezzano.
Da non perdere la chiesa di Santo Stefano, edificata nel quattordicesimo secolo in unica aula a cinque campate.
Se qualcuno dovesse chiedersi il perché della potenza medicea nel borgo di montagna e così lontano dalla Toscana, deve approfondire la storia della Baronia di Carapelle, un insieme di più paesi, quali Castel del Monte, Calascio, Castelvecchio Calvisio e Carapelle Calvisio, oltre al borgo di Santo Stefano.
Era la Baronia appartenente alla famiglia toscana dei Piccolomini, già Conti di Celano e proprietari della Rocca di Calascio. Il paese di Santo Stefano era importante centro di avvistamento dei territori confinanti. Nel 1579 Costanza, figlia unica di Innico Piccolomini, cedette la proprietà a Francesco dei Medici, Granduca di Toscana. Questi fu quasi deriso per aver preso possesso di un luogo definito “ammorbato dalla puzza delle capre e delle pecore”. Tutti dovettero ricredersi quando, giunsero in paese e scoprirono un abitato bellissimo, creato intorno a una natura sontuosa.
Sotto il diretto controllo della famiglia toscana, Santo Stefano raggiunse il massimo splendore grazie anche a un artigianato eccellente di fabbricazione lana carfagna venduta in tutto il mondo dai mercanti. Questi, con le loro carovane, attraversavano le aride distese di Campo Imperatore, piccolo Tibet d’Italia, durante le stagioni più clementi per portare il prodotto ovunque, anche in mare attraverso i porti del Mediterraneo.
Anche i prodotti della terra ebbero grande impulso e ancora oggi rappresentano al meglio l’economia locale:
Lenticchie biologiche e di alta qualità, oggi rinomato prodotto DOP dalle piccole dimensioni con crosta rugosa, da servire con quadratini di pane fritto in olio di oliva o con patate e erbette locali;
le mandorle, raccolte nei mandorleti in zona, di gran gusto e adatte alla creazione di succhi;
La cicerchia, antichissimo legume di alta digeribilità, prodotto lì dove la terra appare più arida e crepata;
La carne degli agnelli di ottima qualità allevati nella piana di Campo Imperatore che nella tradizione locale viene cotta in pentola con formaggio e uova.
Lo spopolamento dell’antico villaggio , dopo l’Unità d’Italia, e in seguito al fenomeno della emigrazione accresciutosi dopo la Grande Guerra, è certo stato un fatto negativo, ma in parte ha contribuito alla tutela dello straordinario patrimonio storico e architettonico del paese, in gran parte, riconvertito anni fa a mirabile e accogliente “Albergo Diffuso”.
Oggi Santo Stefano è nella particolare cerchia dei borghi più belli d’Italia.

Arrivare:
Da Nord
Dall'autostrada A14 seguire la direzione Ancona, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, proseguire in direzione L'Aquila, imboccare l'autostrada A 24, uscire a L'Aquila Est, prendere la SS 17 in direzione di Pescara, svoltare in direzione di Santo Stefano di Sessanio.
Da Sud
Dall'autostrada A14 seguire la direzione Pescara, continuare in direzione Roma, prendere l'autostrada A 25, uscire a Bussi/Popoli, seguire le indicazioni per L'Aquila, continuare sulla SS 5 e poi sulla SS 153 in direzione Navelli, prendere la SS 17 in direzione di L'Aquila e proseguire seguendo indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.
Da L'Aquila
Percorrere la SS 17 in direzione di Pescara, proseguire fino alle indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.