Cerca nel blog

giovedì 19 dicembre 2013

Santa Maria di Propezzano

Gli orizzonti sono dolcemente mossi come lenzuola gonfiate dal vento.
Morbide ondulazioni gialle di grano, orlate dal verde degli alberi si rincorrono fino a morire ai piedi delle pietre consumate dal tempo dell’austera costruzione dell’abbazia di Santa Maria di Propezzano.

Il paesaggio si dispiega dolce, con docili quinte di colore sfumato.

Ma è sufficiente buttare lo sguardo in fondo alla valle Siciliana, alla grandiosa dolomia del Gran Sasso tra foreste tumultuose e girare gli occhi a 180 gradi tuffandosi nelle acque dell’Adriatico, per rendersi conto della grandiosità d’insieme.

La strada quasi isolata che attraversa le ordinate colline di campi ubertosi ricchi di vigneti, poco distante da Notaresco, in territorio di Morrodoro, porta all’ austera costruzione, oggi restaurata, della chiesa di Santa Maria di Propezzano dominata da una quadrata, e tozza torre campanaria.
Giuseppe Ceci, in un vecchio libercolo degli anni ’60 ipotizzava che, in un tempo lontano, questa fosse un torrione merlato a guisa di castello.

A fianco c’è il bellissimo convento benedettino, dalla mole così imponente da far ipotizzare una importanza abnorme nel periodo medioevale sia a livello religioso che civile.
Il mare è ad una manciata di chilometri. Non più di una ventina di tornanti.

In mezzo alle colline, quando il vento soffia, assapori il profumo aspro del verde.

Un luogo di stupore, che parla dell’invisibile con i segni dell’arte e del tempo.

Chissà se i pellegrini che si trovavano nel luogo dove oggi si erge la secolare abbazia di Santa Maria di Propezzano, usavano la zucca come borraccia o se, alla pari di quelli di Santiago de Compostela avevano con loro anche le conchiglie.
O se usassero la palma come quelli di Gerusalemme.
Di certo quei pellegrini oggi indosserebbero vestiti colorati, scarpe comode e di marca, k-way ipertecnologici, zaino e berretto e teli antipioggia.
Al posto del bastone avrebbero la racchetta da trekking, leggera e telescopica.

I pellegrini alemanni, secondo la leggenda, per alcuni tornavano da una visita alla tomba di San Pietro, per altri da un estenuante viaggio in Terra Santa.
Affaticati, vollero fermarsi per il giusto riposo.
Appesero le povere bisacce, contenenti sante reliquie, su di un corniolo e si addormentarono.
Al risveglio, con sommo stupore, i pellegrini si accorsero che l’albero era cresciuto a dismisura e che risultava impossibile prendere le borse.
Ecco che mentre, attoniti, guardavano l’albero ingigantito, una visione celeste ordinò loro di edificare una chiesa.
Era la Vergine Maria.

In verità la Madonna doveva amare fortemente la nostra terra se è vero che un'altra apparizione avvenne molti anni dopo nel contado del Perdono a Canzano e sulla collina prospiciente Giulianova Lido dove poi sorse l’attuale monastero dello Splendore.

L’antico insediamento di alto pregio artistico di questa abbazia romanica, secondo una antica scritta in carattere gotico ormai quasi scomparsa sotto il portico, risalirebbe al 715 d.C.

Esisterebbe anche una pergamena, oggi non più leggibile, logorata dal tempo, che lo storico Nicola Palma dovette copiare e decifrare quando era ancora comprensibile.
Questa specie di bolla che molti attribuiscono a Bonifacio IX, comunque scritta in latino, determinò la datazione della edificazione dell’abbazia proprio in quell’anno.

Il 10 maggio, data in cui tuttora qui si festeggia la Madonna, il Papa Gregorio II consacrò in modo solenne questo tempio a Santa Maria propizia pauperis con l’annesso monastero, che divenne subito punto di riferimento lungo il percorso adriatico verso la Terra Santa.

Questo sarebbe ciò che dice la pergamena e a nulla vale ricordare che Gregorio divenne papa dopo la data della consacrazione della chiesa e non prima.
Il corpo centrale del complesso ha un portico a tre archi sotto il quale si trova il portale e resti di affreschi del ‘400, sopra il portico una grossa finestra tonda e più in alto un sobrio rosone; la parte di destra presenta un portale detto Porta Santa che viene aperto solo il 10 maggio e il giorno dell’Ascensione.
Appena dietro troviamo la torre campanaria quadrangolare.

A proposito della grandiosa Porta Santa, l’opera proviene dalla scuola atriana del 1300.
Gli esperti la attribuiscono a Raimondo Del Poggio, superbo autore del meraviglioso portale del Duomo di Atri, vissuto alla corte degli Acquaviva, signori della città ducale.

Ne parla diffusamente il Palma nel suo libro: “Storie delle terre più a nord del Regno di Napoli”.
Il portale viene aperto durante la festa che ricorda l’apparizione della Madonna e durante l’Ascensione, per tener fede alla Bolla Indulgentiarum papale emessa dal Papa Martino V, il quale concesse indulgenze in queste due solennità per far sì che la chiesa fosse massimamente visitata in quei periodi.
L’abbazia fu completata nel 1285.
E’ una specie di enigma anche la costruzione della chiesa che, contrariamente alla successione degli stili, inspiegabilmente è stata iniziata in forme gotiche e terminata in forme romaniche.
La facciata è costituita da tre parti di diversa altezza; la parte di destra è accorpata nel convento, all’interno di questo c’è uno splendido chiostro con dipinti del seicento e al centro un pozzo artistico.
Sotto gli archetti che girano tutto intorno al chiostro si trovano delle lunette con affreschi del pittore polacco Sebastiano Majewsky sulla vita di Gesù.

Nella facciata spicca un artistico rosone formato da tetti concentrici con fregi in terracotta con sopra lo stemma dei potenti della famiglia Acquaviva.

Sotto il portico, a tre archi a sesto acuto sorretto da colonne, l’ingresso della chiesa ha una porta in legno con fregi di giglio.


Nel libro del Ceci si rimarca che le colonnine sono in stile cosmatesco, simili con le dovute differenze, a quelle dell’ insuperabile San Giovanni in Laterano a Roma.

Con la parola “cosmati”, si designano gli scultori romani artefici di una interessante fioritura artistica intorno al XIII secolo.
L’interno sobrio ed elegante della chiesa non è di quelli indimenticabili, ma le tre navate incutono rispetto e desiderio di preghiera con la poca luce, tipico delle chiese romaniche dove le finestrelle si presentano tutte minuscole.
Resterete sicuramente ammirati da una pittura raffigurante l’Annunciazione dell’Angelo alla Vergine.
A dir poco stupendo l’antico refettorio dei frati con i suoi pregevoli affreschi.
L’ultimo sguardo è per la torre campanaria che, in maniera inusuale risulta non incorporata alla facciata, ma distante circa due metri da essa.

********************

 (Foto con riprese aeree droni di AEROMAPPE telefono 3463217492)

(Suggestive foto con riprese aeree droni di AEROMAPPE telefono 3463217492.
Con droni radiocomandati è possibile efettuare scene mozzafiato come un film
e ogni tipo di riprese dall'alto per turismo, pubblicità, cultura ecc.ecc.
Un servizio ideale per spot pubblicitari, presentazioni aziendali, video matrimonio, rilievi)

Come arrivare:
 A24 RM-TE uscita Teramo / proseguire lungo la SP 22 direzione Morro d'Oro
da Napoli: A1 NA-RM uscita Caianello / proseguire lungo la SS 372 direzione Vairano Scalo / poi SS 85/ SS 158 direzione Colli al Volturno / seguire indicazioni per Castel di Sangro / Roccaraso/ Sulmona / A25 direzione Pescara
A14 direzione Ancona uscita Roseto degli Abruzzi / proseguire in direzione Valle Vomano / Morro d'Oro

mercoledì 4 dicembre 2013

Il "castellano" saggio:

Ascolta il tuo cuore. Esso conosce le tue cose!

“Sai qual è la prima virtù di un pastore?
È la pazienza, quella s’impara molto presto”.

L’uomo aspira avidamente il fumo dell’improvvisata sigaretta fatta di cartina arrotolata e trancio di tabacco di infimo valore a giudicare dal cattivo odore.


Sopra le nostre teste, la gramigna vetta è chiusa in una morsa di nembi grigi.
È scesa la prima neve sui monti della Laga.
Fa freddo ma venire fin qui è valsa la pena!

“Poi - continua - s’impara a tosare, accudire le pecore gravide, a proteggere gli animali e le cose dai lupi, ad ammazzarle senza farle soffrire in caso di malattia.
Infine ci si affeziona alle bestie che riconosci una per una e ti diventano di famiglia.

Ti accorgi di quale manca, quale partorirà presto, la pigra, la più vispa, la recalcitrante furba.

Cosa credi tu uomo di città, la pastorizia è arte per pochi”.

Rocco ha quasi ottant’anni, faccia ancora avvizzita dal sole nonostante l’inverno ormai arrivato, pizzetto da satanasso e ancora va dietro a qualche pecora insieme alla fida Luna.
Tutta l’estate se ne va lungo i piedi della montagne della Laga, tra la Macera della Morte, Cima Lepri e le foreste di San Gerbone, insieme alle sue bestie.

Poi i due figli, in autunno portano le pecore in pianura e le risalgono su in aprile.

La cagna rimane con il suo amato padrone avanti negli anni.
Ha il pelo nero arcigno drizzato dalle folate di vento che ogni tanto imperversano nella zona.
Magro all’osso, l’uomo pare opporsi con fatica all’aria viaggiante.

Mi pare di essere sul set di un film d’altri tempi.

Qui la montagna è come la madre di quei pochi irriducibili che non volgiono rompere con le proprie radici.
“Ma quale madre - quasi urla il vecchio - questa è una montagna cattiva, dura e buona solo per pastori e eremiti.
E poi l'hai sentita l'ultima scossa l'altra sera? Il terremoto non ci lascerà mai”.

Nulla di più vero.
Un tempo e fin dall’antichità, sia i transumanti che gli asceti avevano l’uso comune delle grotte e dei ripari di fortuna in caso d’intemperie.

Queste due dimensioni antropologiche e sociali, così diverse e apparentemente distanti, hanno vissuto per lunghi secoli in contiguità tra loro.

Oggi che gli asceti sono scomparsi dalle forre d’Abruzzo, quasi inesistenti ormai i pastori, gli eremi, le capanne in pietra, continuano a segnare il paesaggio della Laga, tra anfratti naturali, gole, fitti boschi.

Quest’uomo d’altri tempi che fa pascolare le sue bestie pare confermare tutto ciò.

“Noi pastori siamo razza strana, amico mio! Io ancora oggi sono superstizioso.
Guarda, da anni porto in tasca queste due pietre lisce che trovai da ragazzino nel bosco sotto Lama.
Le tasto, me le rigiro nella tasca dei pantaloni e mi sento tranquillo”.
Ride un po’ sguaiato l’uomo antico mentre mostra i suoi antichi talismani improvvisati.
È una gioia ascoltarlo!
“Le pietre che ho con me da cinquant’anni, sono comunque nuove perché non c’è mai niente di nuovo sotto il sole”.

Proprio un pastore poeta mi doveva capitare!
Mi segno questa frase un tantino sibillina nel mio taccuino.

Il vecchio, dopo una suonata con la sua armonica a bocca, si allontana non prima di aver lanciato le sue ultime chicche:

“Il mondo è da vivere senza fretta e pazienza proprio come facciamo noi pochi pastori rimasti in giro.
Custodisci sempre quel poco che hai come faccio io con queste mie pecore.
Anche se hai poco, ricorda che siamo troppo piccoli per abbracciare il mondo”.

Si è alzato il vento, portando non solo gli odori della terra.

Pare trasportare anche il sudore di chi lavora senza mai fermarsi, i sogni degli uomini che credevano in una vita facile, ricca di soddisfazioni e che hanno trovato un’esistenza di stenti.


Invidio la libertà del vento!


********************
I monti della Laga, parte teramana si raggiungono da più parti. 
La valle del Castellano si raggiunge da Teramo per la strada provinciale 48 per il Ceppo e poi la 49, venti chilometri per Valle Castellana.
Da Ascoli Piceno sono circa venti chilometri.  

Il mio caro amico Alessandro de Ruvo, artista della foto, ambientalista del C.A.I. e cultore della montagna, mi ha concesso l'utilizzo dei suoi stupendi scatti di montagne innevate! 
Grazie Alex!

lunedì 2 dicembre 2013

Guardiagrele: La città di pietra!

Quando l’amico Raffaele Tini organizza una scorribanda mangereccia, vale sempre la pena seguirlo perché alla buona cucina si abbina anche una lezione di cultura.

Ecco che una bella serata ci porta a fare un po’ di chilometri alla ricerca della “città di pietra che risplendea al seren di maggio”.

È questa l’eterea e immortale definizione del bellissimo borgo di Guardiagrele, nella Majella tra il pescarese e il chietino.

Siamo in un angolo d’Abruzzo bello e discreto, ai margini di un mondo di gole e forre, valli silenti sormontate da immani pareti, guglie e creste scolpite da sole, vento e neve.
Un patrimonio di severa bellezza in ogni stagione dell’anno, che ben si integra con le più profonde tradizioni artigiane di orafi, ricamatori e fabbri.

Nel borgo vivono poco più di mille abitanti. Fuori dal paese, un paesaggio aspro, dove però non mancano pascoli e dolci colline, fino all’Adriatico in circa quaranta chilometri di tornanti.

Più su, fitti boschi incantati, antiche selve dove l’Appennino è più vero.
Chiome d’alberi che hanno ispirato artisti e poeti, che hanno dato rifugio a santi e monaci, chierici e briganti.
Oggi rappresentano l’ultimo vero Eden, il nascondiglio per cinghiali, lupi, aquile e camosci.

Bisogna dire subito che da questa parti si mangia da Dio ovunque, pasteggiando con ottimo vino.

Basti pensare che tra le tante, ottime aziende agricole si annoveri la mitica cantina Masciarelli, marchio famoso nel mondo per il vino abruzzese.
Questa è terra di pastori e gli uomini ai piedi della montagna madre hanno dedicato e dedicano ancora la loro vita ad accudire pecore e a produrre formaggi di bontà infinita.

Sempre qui, non molto lontano, grazie a tecniche tradizionali e acqua pura che arriva dai valloni di montagna, si producono le paste delle migliori aziende del settore come la De Cecco, la Del Verde.
Come dimenticare, poi, che la “Guardia”, come definiscono il paese, i suoi abitanti, è tra i “borghi più belli d’Italia”, speciale classifica nazionale sulle eccellenze paesaggistiche e storiche?

Basterebbe declamare i versi del poeta Modesto Della Porta per scoprire tutta la bellezza naturalistica e i tanti artisti di una città che il D’Annunzio amava profondamente.

Si narra, a tal proposito, che il Vate arrivò la prima volta a Guardiagrele, in giovane età per accompagnare la madre che cercava i famosi utensili in rame forgiati a meraviglia dai maestri artigiani locali, nel borgo antico.

Scoprì allora il grande poeta questa incredibile fucina di arte tra splendide lavorazioni di metalli e sontuosa arte orafa, tramandata dal grande Nicola da Guardiagrele le cui opere sono sparse ovunque a cominciare dalla croce astile che fa bella mostra di sé a San Giovanni in Laterano a Roma e, per finire, al magico “Paliotto”, custodito nel Duomo di Teramo.

Oggi i suoi emuli, nelle loro fucine, battono con perizia il martello sulle loro incudini, forgiando ancora opere d’arte.

Ancora oggi tra feste popolari di rara bellezza e di tradizioni custodite gelosamente, da cinquanta e passa anni si svolge una tra le più belle Mostre dell’Artigianato Artistico Abruzzese, manifestazione famosa in tutta Italia.

Davanti la porta di San Giovanni sembra di essere immersi in un suk marocchino.
Tutto intorno botteghe, turisti infreddoliti dai portafogli imbottiti, artigiani dai larghi sorrisi.

Alle mie spalle, un rimescolio di creste dirupate e biancastre, di fianchi, ora tinti del pallido verde dei prati, ora spruzzati del candido vello bianco di una neve soffice, ora immersi nel colore smeraldo cupo delle boscaglie di faggi.

La guida rossa del Touring recita: “…a Guardiagrele si lavora di fino, si cesella, si ricama!”.
Tra una “presentosa” in filigrana, una sedia in paglia, un merletto in frange e nodi, un baule della nonna, un”barrique” in legno, un vaso di coccio e un pentolone in rame, sembra di essere tornati indietro nel tempo.

Attraverso le strette vie giungiamo in piazza.
All’angolo della chiesa di Santa Maria Maggiore si conservano gli stemmi delle famiglie nobili che si sono avvicendate nella vita politica e sociale del paese.

La basilica dell’XI secolo è meravigliosa, non a caso fa parte di un elenco di monumenti europei da salvaguardare così come notevole è il complesso monumentale di San Francesco d’Assisi.

Ci affacciamo all’altro balcone, quello meridionale rivolto verso il mare di Pescara.

Che meraviglia!
Due vedute speculari fra loro, ad abbracciare mare, colline e monti.
È ora di mangiare e a ben vedere anche in cucina Guardiagrele non ha nulla da invidiare.
Nel menù abbiamo gustato una delicatissima pasta con broccoli, agnellino di montagna in umido con patate al forno.
Infine, ecco il dolce tipico: Le Sise delle monache, due strati di soffice pan di spagna con crema pasticcera che ti rende buona la vita.
Il dolce fu creato da un grande pasticcere locale, tal Giuseppe Palmerio nel 1884.

I clienti, seduti al tavolo del caffè pasticceria, che assaggiarono per primi la creazione dello chef, rimasero estasiati dal sapore e, per la forma delle paste, imposero il nome un po’ dissacrante in onore dei seni delle suore nel vicino convento di clausura.

La passeggiata a Guardiagrele è giunta alla fine.

E mentre la mia gentile signora mi svuota la carta di credito nelle botteghe artigiane, torno verso le mura settentrionali, a rimirare l’impagabile veduta della
dea Maiella.

********************

Come raggiungere il borgo:
Da Nord:
Dall'autostrada Adriatica A14 in direzione Ancona, uscire a Pescara Ovest/Chieti e immettersi sull’Asse Attrezzato in direzione di Chieti, prendere la SS 81 in direzione di Guardiagrele.
Da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 in direzione Pescara, uscire a Val di Sangro, seguire la direzione Villa S. Maria, prendere la SS 652, continuare sulla SS 81 in direzione Guardiagrele.