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mercoledì 30 ottobre 2013

Casoli di Chieti: dove convive natura, arte e storia

La bellezza dell’Abruzzo a volte ti trafigge come un dardo di Cupido, anche solo attraversando un borgo, sorprendendoti dei panorami, delle case abbrunite dal tempo, di un’agricoltura antica che coniuga sapientemente produttività e piacere degli occhi.



Insomma, è lo sbalordimento di chi ama la sua terra e la vede come un incastro perfetto e quasi magico di pianure, colline e montagne.

Accade anche a Casoli di Chieti, antico villaggio fortificato nella valle del fiume Aventino e raccolto con le sue vetuste abitazioni attaccate al castello su di un colle affacciato sulla dorsale della Majella più aspra.
Arroccato sul bastione verde, pare un’astronave a fil di nubi.

Sotto vette prodigiose si estende anche una piccola pianura coltivata a girasoli e ulivi belli da mozzare il fiato.
I colori della terra, soprattutto in autunno, hanno i magici toni del marrone, ocra accesa e varie sfumature di verde.

Il paese si raggiunge affrontando un saliscendi di colline amene che dalla costa e i suoi abitati nuovi di cemento, portano fin sotto i picchi rocciosi.

Allontanandoci da grigliate, assembramenti e motori in strada, la vita pare più bella.
Casoli ha una storia più che millenaria.
È un concentrato di tracce che partono dalla preistoria, poi etrusche, romane, medievali e rinascimentali.

Da tempi antichissimi questo luogo ha, infatti, accolto importanti insediamenti abitativi e anche al turista frettoloso, quello del classico mordi e fuggi, offre forti emozioni.

Al visitatore non sfugge neanche la bonomia degli abitanti e la comoda lentezza di un piccolo paese in cui puoi guardarti intorno senza urgenze, cliccare istantanee, scambiare due parole con gli abitanti e fare un rapido viaggio nel tempo.

Tribù sannitiche hanno lasciato importanti resti del municipio creato dopo la guerra sociale avvenuta nella seconda metà del I secolo dopo Cristo, fra cui anche vestigia di secolari strutture termali che raccontano di un luogo ameno dove i Romani venivano a “passare le acque”.

Il tortuoso percorso che porta al castello ducale dove fu ospitato il vate Gabriele D’Annunzio, permette, inerpicandosi sulla collina, di scoprire vecchie viuzze dove il tempo pare essersi fermato.
Sono piccoli angoli segreti, autentiche gocce di medioevo.
Molti lungo il percorso sono gli edifici settecenteschi come i palazzi Tilli o De Vincentiis o ancora il De Cinque.

Se potessimo entrare, sicuramente scopriremmo stemmi gentilizi, stanze affrescate, raffinate scalinate.

La parrocchiale di Santa Maria Maggiore è aperta.
Qualcuno sta provvedendo alla pulizia.
M’intrufolo alla chetichella con passo felpato da cheyenne e scopro un bell’interno, impreziosito dal coro e da una bella tela cinquecentesca della Madonna del Rosario.

All’uscita incombe sulla mia testa l’imponente torre maggiore pentagonale del castello.
Affacciandosi dai muri perimetrali della fortificazione si ha la vista dell’Aventino e della valle del Sangro con sopra le montagne a circolo.

Non lontano c’è l’incantevole lago di S. Angelo, contornato da boschi di leccio tra straordinari scorci sulla Majella.
È un posto ideale per il birdwatching con un’antica torretta di avvistamento a difesa della valle.

Il castello ha l’ingresso a pagamento ma entrarci è importante, anche se alla fine sono un pochino deluso.

Ti aspetti comunque una sorta di Caronte all’ingresso e invece trovi una bella ragazza che, stendendoti il biglietto, regala suggerimenti di visita.
Le stanze del maniero parlano di D’Annunzio.

C’è anche in un angolo recondito una scrivania, dove pare che il Vate scrivesse rime.
Oggi c’è un piccolo gufo di legno dimenticato da qualcuno, forse antico talismano in grado di far emergere la vena artistica di chi lo tocca.

Il grande poeta fu ospitato più volte a fine ‘800, quando all’interno della rocca si costituì un importante cenacolo d’arte con incontri di elite tra pittori come Francesco Paolo Michetti di Francavilla, il musicista Francesco Paolo Tosti di Ortona, oltre a scultori e romanzieri.

E' utile ricordare che in ottobre viene celebrata ogni anno la grande festa dedicata a Santa Reparata, la patrona.

Nella chiesa a lei dedicata, dove si trova un bell'altare cinquecentesco e un tabernacolo a trittico su tavola di grande valore, si svolgono funzioni religiose e da lì parte la processione famosa delle "Conocchie", antica tradizione in cui i giovani sfilano in costumi tipici con in testa grandi conche piene di prodotti della terra.

Ora è tempo di muoversi.
C’è da visitare la Riserva Naturale del Lago di Serranella per osservare una delle zone umide più importanti d’Abruzzo.

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Arrivare a Casoli e al lago da Nord e da Sud:

Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: in direzione di Ancona; da sud: in direzione Pescara),
uscire a Val di Sangro, seguire la direzione Villa S. Maria, prendere la SS 652 e seguire le indicazioni per Casoli.
Dalla città di Chieti: Prendere la SS 81 e seguire le indicazioni per Casoli.

lunedì 28 ottobre 2013

L’arte del vino!

Gesù, nell’Ultima Cena, alzando il calice, rese il vino, insieme al pane l’elemento costitutivo dell’Eucarestia e della vita di ognuno di noi.

Probabilmente a questo episodio, il più importante di quelli tramandatici dai Vangeli, la vite deve molte delle sue fortune.


L’Abruzzo contadino ha una solida tradizione di terra ricca di vitigni e inventiva che regala vini eccellenti per purezza, gusto e aroma anche in pezzetti di terra considerati minori per la produzione vitivinicola.
Uomini coraggiosi fanno comunque emergere un territorio che ha molto da far scoprire.

La storia di Renato è simile a quella di tanti di essi. Siamo nelle colline alte, quelle a ridosso dei Monti Gemelli tra Campli e Civitella del Tronto.
Di quel pezzetto di terra qualche anno fa lui si era proprio dimenticato.
Poco meno di venti pertiche, misura agraria usata nelle nostre campagne, quindici di esse fanno un ettaro.

Lo aveva ereditato tempo addietro dal nonno ed era incolto.
Poi un giorno il nostro amico, una vita di ufficio e scartoffie ad Ascoli Piceno, è andato finalmente in pensione, i figli ormai grandi ed ecco che è scattata quasi naturale, la felice intuizione.

Renato ha tolto faticosamente le erbacce, ha pregato un amico agricoltore di aiutarlo a una buona aratura, ha scoperto i segreti più reconditi della semina e della concimazione e, con macchinari inizialmente in prestito, ha reso il terreno, un piccolo tesoro.

Ha creato il suo mondo dai filari di viti, sopravvissute a prolungata incuria, sostenute oggi da meli, peri, ulivi, alternati a piccole strisce coltivate a frumento.

È l’antico metodo dell’”alteno”, un campo coltivato con piante di viti abbinate ad altre di fusto per far sì che la parte frondosa crei una sorta di tetto, un soffitto verde.

È una piccola vigna rupestre costruita attorno a massi di arenaria, che restituisce il sapore antico del vino “Pecorino” e quello deciso del “Montepulciano”.

“Proprio il pecorino ha qui, tra le colline che sanno già di montagna, il suo habitat naturale”, mi dice il buon Renato che oggi produce pochi quintali di nettare, un po’ per lui e altri già prenotati da clienti di vecchia data.

Poi mi racconta che il nome non è solo dato dalla storica transumanza dei pastori ma soprattutto per il particolare gradimento delle greggi verso i grappoli di uva, che si presenta con acini piuttosto piccoli, gustosi e croccanti.
Il suo minuscolo vigneto è quanto di più poetico ci possa essere.

Gli chiedo com’è l’annata 2013 e lui mostra la sua saggezza: “una vendemmia si giudica solo dopo che l’uva è nelle botti, anzi quando il vino è dentro la bottiglia”.
Poi si sbilancia, m’invita a guardare la vite pronta a dare i suoi frutti e capisco che i vini, con l’aiuto di Dio, avranno mordente, regaleranno buoni aromi e raccolti garantiti da piogge e temperature stagionali nella norma, insomma più sapore, meno alcool“.

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I monti Gemelli (Montagna dei Fiori di 1820 metri e Foltrone di Campli, 1721 metri), si collocano fra le città di Teramo e Ascoli Piceno, delimitate a est dalla S.S. 81 Piceno Aprutina. 
Le due montagne sono separate dal cuneo delle fantastiche gole del Salinello. 

Blockhaus: terra di pastori e briganti

Il brigantaggio in Abruzzo ha radici antichissime, soprattutto nel territorio protetto della Majella.
Tra il Seicento e il Settecento e ancor prima nel Cinquecento con il famigerato Marco Sciarra e la sua banda, la povertà indusse gli uomini della montagna a unirsi nei saccheggi e nelle imprese delittuose.

Intorno al 1860, poi, una dura legislazione piemontese che disattese la riforma agraria, acuì i divieti e la povertà nel popolo, reprimendo sanguinosamente ogni forma di protesta.

C’è un luogo bellissimo, immerso nella natura, che ha una grande valenza storica.
Si trova nei pressi del Blockhaus, vetta che si affaccia sia su Chieti sia su Pescara, all’estremità settentrionale del parco Majella.

Qui i visitatori salgono attraverso le strade che da Pretoro, Roccamorice con gli eremi celestiniani o Lettomanoppello, porta fino ai duemila metri sia per sciare in inverno sia per respirare una boccata d’aria pura in estate.

Gran parte dei turisti si ferma al piazzale, perdendosi una passeggiata meravigliosa tra scenari montani bellissimi e pezzi di storia su pietre.

Incontri ravvicinati con pini mughi, rocce, animali come capre selvatiche, camosci, aquile, panorami sui selvaggi valloni di Selvaromana e Orfento, accompagnano gli escursionisti fino a un posto dove parla anche la storia.

Il sentiero è un vero viaggio nel passato.

Si incontrano i resti del fortino Blockhaus, costruito nel 1866, testimonianza di assoluta importanza del brigantaggio successivo all’Unità d’Italia, luogo anche di rifugio per i pastori e, soprattutto la cosiddetta “Tavola dei Briganti”.

Si tratta di una roccia piatta che si raggiunge facilmente con questo percorso segnalato e molto evidente grazie anche ai segnavia del CAI.

Il tracciato costeggia la cima di Monte Cavallo, scendendo verso i prati di Selletta Acquaviva.
Una piccola deviazione conduce alle iscrizioni su pietra.

Per capire meglio di cosa si tratta, tra le tante scritte, si legge ancora:
Nel 1824 nacque Vittorio Emanuele. Prima del 1860 questo era il regno dei fiori, oggi è quello della miseria”.

Arrivati in questa località dove si può riposare, fare picnic e bere acqua di sorgente, si torna indietro per la stessa strada e in tutto avrete impiegato meno di due ore. Si può scegliere di proseguire se si è allenati e un po’ esperti di montagna.

Il sentiero a mezza costa diventa più impegnativo fino al bivacco Fusco a 2500 metri da dove si apre un meraviglioso belvedere su uno degli anfiteatri più belli d’Abruzzo:
Le Murelle con branchi di camosci in libertà.

In meno di un’ora si conquistano i 2694 metri del monte Focalone, la vetta più a settentrione nella Majella, da dove la vista spazia alla vetta più alta del complesso, il famoso Monte Amaro.

COME ARRIVARE
A25 Roma-Pescara, uscita Alanno-Scafa, quindi SS5 direzione Scafa, prendere a sinistra per Pianopuccia, Lettomanoppello e Passo Lanciano. 
Da qui indicazioni per Majeletta e Blockhaus. 

sabato 26 ottobre 2013

Così parlò Adriano De Ascentiis direttore dell’oasi dei calanchi di Atri

Grazie alla collaborazione del prof. Lucio De Marcellis, abbiamo realizzato un’intervista con Adriano De Ascentiis, direttore dell’Oasi dei Calanchi di Atri. 
Questa Riserva Naturale Regionale è uno dei gioielli naturalistici del teramano, non ancora conosciuta da tutti.
Istituita dalla Regione Abruzzo nel 1995, è diventata Oasi WWF nel 1999 e si estende per circa 380 ettari interamente compresi nel territorio del Comune di Atri (TE).

L’Oasi, direttore, meriterebbe più di una visita, vero?
Certo!
Il territorio protetto è relativamente piccolo, presenta un’estensione di circa 400 ettari, sviluppandosi dai 104 metri del fondovalle del Torrente Piomba ai 468 di Colle della Giustizia, ma offre una varietà di ambienti naturali incredibile.

L’assoluta singolarità geomorfologica dei Calanchi rende quest’ambiente un’esclusiva territoriale a livello nazionale.
L’area protetta conserva una delle forme più affascinanti del paesaggio costiero adriatico, i Calanchi, imponenti architetture naturali conosciute come “li Ripe” e ai più con il nome di “Bolge dantesche” o “Unghiate del Diavolo”.

L’aspetto aspro e impressionante delle rupi deriva da una forma di evoluzione erosiva dinamica dei suoli causata dall’alternarsi di periodi piovosi e siccitosi su suoli argillosi, spogliati e portati in superficie da passate deforestazioni.

I calanchi segnano tutta la fascia pede appenninica peninsulare, ma solo qui, nel territorio di Atri, caratterizzano così fortemente il paesaggio agrario.
All'interno dell'area è possibile osservare interessanti presenze faunistiche come il raro cervone o il tritone crestato, nelle ore notturne istrici, volpi, tassi e puzzole, lepidotteri, quali l’Odice suava o la Lasiocampa quercus e la bellissima Podalirio, ma anche falchi pellegrini, poiane, upupe e gruccioni che frequentano l'area nel periodo estivo.

Tra le presenze floristiche di particolare pregio, ricordiamo la liquirizia, coltivata un tempo a fini industriali, la tamerice, il cappero che punteggia le aride pareti calanchive, il Carciofo selvatico e la rara Centaurea napifolia.

Una delle peculiarità più gradite dai turisti è la recente ciclo-pedo-ippovia.

I visitatori la definiscono meravigliosa!
È un percorso naturalistico di 28,8KM che si snoda interamente nella valle del Torrente Piomba, piccolo corso d'acqua che sorge nel territorio di Cellino Attanasio (TE) e che sfocia in mare tra i comuni di Silvi e Città Sant'Angelo.

Il percorso ha inizio dal maneggio “Podere 3C La Sorgente”, localizzato sulla sponda sinistra del torrente, poco sotto l'abitato di Treciminiere, frazione di Atri, per poi proseguire all'interno del Sito di Interesse Comunitario (SIC) “Calanchi di Atri”, area per la protezione della biodiversità in ambito europeo, che insieme a tutti gli altri SIC e alle Zone di Protezione Speciale (ZPS) costituisce la Rete Natura 2000 e all’interno di essa ha luogo l’omonima Oasi WWF.

Il percorso, facilmente individuabile, attraversa alcuni dei luoghi più spettacolari e panoramici del territorio atriano.
Lungo il tragitto si ammirano sia le affascinanti architetture naturali dei calanchi, che la splendida cornice offerta dalle colline e dalla catena del Gran Sasso e Monti della Laga, che chiudono l'orizzonte.
Accompagnano gli escursionisti, campi fioriti, voli di rapaci e di farfalle e pareti rocciose.

Ci s’inoltra nel cuore dell'OLasi WWF “Calanchi di Atri” dove si ammirano dal belvedere San Paolo, le maestose piramidi di terra.
Lungo il percorso, grazie a bacheche didattiche, si accolgono preziose informazioni sulle aziende e i prodotti tipici e s’incontra la famosa e misteriosa Pietra di San Paolo, minuscola cappella utilizzata come luogo di culto pagano per rituali e cerimonie.

La segnaletica quindi è esauriente?

Le frecce che segnalano il percorso presentano una grafica essenziale e facilmente comprensibile.
La bicicletta indica un percorso per mountain-bike e il cavallo quello relativo dell'ippovia.

All'interno del riquadro con il simbolo equino si trovano utili indicazioni sulla chilometrica, ossia sul percorso che si effettua dal punto di partenza fino all'indicazione.
L'acronimo F.I.S.E (Federazione Italiana Sport Equestri), indica la certificazione della pista da parte della Federazione e con la cifra 01, la peculiarità rappresentata dalla pista in quanto prima ippovia certificata del Teramano.

Quali progetti state portando avanti per collegare Atri ad altre località con una rete di ciclo-pedo-ippovie?

Il Circolo “Il Nome della Rosa” di Giulianova e l’Associazione Itaca Faiete hanno organizzato un corso di euro progettazione con i fondi europei e noi abbiamo dato la nostra disponibilità per permettere ai corsisti di realizzare praticamente un project work sulle tematiche della nostra oasi.

Due delle corsiste, la dott.ssa Caterina Marina Sciarra e la dott.ssa Annamaria Scarponi hanno pertanto deciso di portare avanti un progetto di valorizzazione del turismo sostenibile sul territorio. Comprende un ampliamento della cicloippovia della Riserva Naturale Regionale Oasi WWF “Calanchi di Atri” fino a ricollegarsi alla ciclovia adriatica, completandone alcuni tratti finora mancanti e corredandola di certificazioni ambientali.

Questo, sia per i comuni aderenti al progetto (al momento si ipotizza possano essere i Comuni di Atri, Pineto, Roseto degli Abruzzi e Giulianova), con la Carta Europea per il Turismo Sostenibile, sia per le aziende e le strutture ricettive presenti lungo il tracciato.

La promozione di tale iniziativa sarà certamente diffusa con una campagna di comunicazione che cercherà di sfruttare tutti i canali mediatici a nostra disposizione.
Al momento il progetto è allo stadio preliminare, bisognerà incontrare tutti i portatori d’interessi che finora sono stati individuati e cercare delle fonti di finanziamento europeo che permetteranno la realizzazione di un progetto tanto ambizioso, quanto fondamentale per dare un nuovo slancio e una nuova identità al turismo sui nostri territori.


Per informazioni: http://www.riservacalanchidiatri.it
Come arrivare:
A14, uscita di Atri-Pineto,
oppure A24, uscita Villa Vomano-Roseto degli Abruzzi, quindi strada statale 16 Adriatica.

In treno: stazione Atri-Pineto

mercoledì 23 ottobre 2013

Santo Stefano di Sessanio: Le atmosfere del tempo

(Tratto dal libro Il mio Ararat!)
“Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.”(Galati 5,16)

Giuseppe Copertino ha 83 primavere sulle spalle.
Si definisce un contadino di montagna.
Incontrandoci, ci stende le sue mani ruvide e giganti che ricordano quelle esagerate di Gianni Morandi.
Ha una passione incredibile per la poesia.
Ne ha fatta una anche per i suoi mandorleti.

La valle qui ne è ricca.
Il terreno dell’improvvisato poeta, ne ha circa settanta, piantati dal nonno del nonno.
Un tempo erano una ricchezza, oggi chissà!
Sono gli unici alberi in una piana brulla che ci accompagna fino a Castel Del Monte.

Da queste parti, racconta Giuseppe, c’erano anche delle “nevaie”.
Servivano negli anni ’50, quando non esistevano frigoriferi.
Erano fosse lunghe anche una decina di metri, scavate e delimitate da muretti a secco.
La neve veniva tagliata in piccoli blocchi e portata con i muli fin su il paese per gli usi casalinghi.
In cambio di un bicchierino di liquore alla mandorla, naturalmente, ci vediamo costretti ad ascoltarlo nella declamazione dei suoi versi un po’ infantili ma dettati sicuramente dal cuore.

Nell’avvolgente tepore cromato del più classico tramonto di fine estate il borgo è più bello che mai.

Il terremoto ha cercato di invalidare questa meraviglia, facendo crollare la parte sommitale della torre medicea, ma la ferita non ha leso il fascino di questo posto fuori da ogni tempo.

Le facciate in pietra delle case hanno un riflesso di un rosa intenso.
Gli archi, i viottoli già illuminati dalla fioca luce di antichi lampioni incantano chi, come me, ama le piccole gocce di Medioevo che donano scorci di ineguagliabile stupore.

Le strette vie si aprono improvvisamente su piazze dai balconi in fiore.
Anziani dignitosi e ragazzi dall’espressione timida popolano il piccolo bar con i tavoli fuori.
Le ore passano scandite dal ritmico incedere delle carte da gioco buttate lì.
Un tre di bastoni schiocca secco sul tavolo come lacerante colpo di frusta, insieme ad una corposa bestemmia.

Sembrano interdette le donne vestite di nero che attraversano la piazza per recarsi al rosario.

Accanto, scivola con passo felpato il vecchio prete che corre a dire messa.
Le grida degli anziani nel concitato tressette della sera, non si curano di due forestieri come noi.

Le mani degli uomini sono come fitti pezzi di tronchi anneriti dal tempo.

Gli sguardi si sollevano svogliatamente dalla conta delle figure del gioco e di colpo le voci diventano simili a pietre che si sfregano bisbiglianti.

Dalla finestra, posta a livello della strada acciottolata, si percepisce distintamente il rumore metallico e ripetuto di un mestolo che gira un composto dal cui odore capisco abbia come ingredienti principali mandorle e miele.
Ma in tutte le vie c’è l’abbraccio amorevole dei profumi antichi di una terra povera, fatta da emigranti e venditori ambulanti che percorrevano le vallate con le loro chincaglierie.

Una leggenda poco nota anche agli stessi abitanti di oggi, narra che i paesani di tanti anni fa chiesero al diavolo in persona di costruire il paese in pietra.
Il satanasso li accontentò compiendo l’opera in una notte di fulmini e saette.
In cambio chiese l’anima del primo cristiano che avesse attraversato il borgo.
Dovette accontentarsi di quella di un povero cane affamato e per la rabbia, sprofondò nel fondo degli inferi.

Siamo in provincia dell’Aquila, a non più di una manciata di chilometri da noi.

Questo luogo dalla elegante e ben conservata architettura medioevale è unanimemente riconosciuto come uno dei più bei villaggi d’Italia dove mura, porte, archi, chiese, palazzi e torri deliziano i visitatori anche stranieri.

Un giornale inglese consigliava di lasciar perdere le colline del Chianti fiorentino per investire capitali in questa terrazza montana dove la vita e il suo tempo ha ancora un senso.
Dopo il sisma violento del 2009, l’interesse degli stranieri è scemato ma, chiunque cerca artistiche atmosfere, è nel posto giusto.

Decidiamo di passare la notte in paese, passeggiando e godendo di questo presepe dalla divina scenografia, di questa avventura deliziosa dello spirito.

Dormiremo in locanda.
Mi sembra di essere nato qui.
Un lampo attraversa la mia mente.
Santo Stefano dispensa anche delizie terrene.
È vero che, nella Lettera ai Galati, San Paolo esclama: “Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne”, ma la fame, vi giuro è terribile.

Davanti la porta d’ingresso mi sento quasi mancare all’odore persistente di una zuppa di legumi.
Ricordo che il paese è famoso anche per le sue lenticchie.
Un legume piccolo, di colore marrone scuro, la buccia ruvida ma il sapore delizioso e il profumo avvolgente.
Siamo già a tavola ad arricchire la nostra zuppa, con un prelibato olio che c’inebria.
Ci vengono servite anche delle lumache in guazzetto che non mi aspettavo.
Mi dispiace mangiarle.
Sono animali tenerissimi, simbolo di morte e resurrezione essendo capaci di fermare il proprio cuore all’inizio del letargo e rimetterlo in funzione in tempi propizi.

Le lumache vengono accostate alla luna per la loro abilità nell’apparire e scomparire nel guscio.
“Lo sa - ci dice l’oste - che sono gli unici animali che girano sempre a destra nel costruire la loro casa? Le lumache sono molto amate da Berlusconi”!
E giù a ridere sguaiato per una battuta che troviamo pessima.

“Ma i pochi sinistro giro - continua il maledetto - sono ricercati perché portatori di buona sorte”!
Il pecorino, che conclude una sontuosa cena, regala sensazioni non riportabili su carta.

L’oste, dallo sguardo compiaciuto e dalla pancia prominente, continua con le sue elucubrazioni non richieste.

Si affretta a spiegarci che questo legume ama i terreni calcarei di altura, apprezza con compiacimento la sublimazione della sua cucina, continua a spiegare che gli inverni lunghi e rigidi e le estati brevi e piovose non fanno che del bene alla qualità del legume.

Dopo cena, gonfi per il gran mangiare e storditi dalle chiacchiere dell’uomo e dai bicchieri, ci rituffiamo nel dedalo delle viuzze dove si respira ritmi lenti, in una rarefatta assenza di suoni, rotta solo dal rumore di qualche stoviglia, piccole note da un televisore che colpiscono come un rombo di tuono nel silenzio circostante.
Ci addormentiamo presto per essere svegli di buon mattino.

Dalla finestra della camera, l’alba dona colori tenui all’azzurro.
Guardo contro il cielo i profili lisci e curvilinei dei monti formare una magica geografia di zolle d’erba rarefatta.
Finalmente ho dormito su di un buon materasso.
La schiena ringrazia sentitamente.
La locanda è veramente accogliente.

Posta al centro del paese occupa un meraviglioso edificio che conserva ancora tracce evidenti del lontano dominio dei Piccolomini nel 15°e 16°secolo.

Dopo un buon caffè eccoci di nuovo a passeggio nel borgo antico per arrivare alla torre Medicea, posta nel punto più alto del paese. Rappresenta il monumento primario dell’intera struttura urbana.
Faceva parte di una catena di punti di vigilanza che aveva i suoi avvistamenti più importanti in Calascio e nel castello di Bominaco.

Guardo la torre ferita, ricordo la volta che venni proprio sotto il manufatto insieme agli amici di Bologna.

Allora era intera!
Si presentava in tutta la sua magnificenza.
A proposito di Bominaco, si raccontano storie incredibili sul maniero.
Lo si credeva infestato da un fantasma.
Un’anima maledetta vagava tra le pietre.
Era Pier Maria dei Piccolomini, soldato di ventura, assassinato mentre festeggiava il ritorno dalle battaglie, da un rivale in amore.
Pugnalato, fu gettato in un pozzo.
Pare che fosse tornato in vita per uccidere la donna e il suo amante.
La morte dei due è rimasta un episodio inspiegabile.
Santo Stefano ha l’architettura delle famose “case mura”, caratterizzate da camminamenti coperti e da unità abitative legate tra loro.

Scorgiamo ingressi con singolari archi in pietra e secolari arredi urbani.
Capiamo perché ci troviamo in uno dei paesi più belli d’Italia e perché l’Ente Parco abbia concepito proprio qui, un grande progetto di recupero e tutela in ottica strettamente conservativa di questo ingente patrimonio storico e architettonico.

La “Casa del Capitano” è un edificio gentilizio che visito di lì a poco, posto nella zona in cui si sta realizzando il grosso dei lavori di consolidamento.

Appena fuori del centro, antiche masserie rendono visibili tracce di storia segnata dalla vita e dalla cultura contadina.


Un’esistenza dura legata ad una economia difficile.
Tornando nel cuore del paese ci troviamo davanti al Centro Visite del Parco.

Una gentile ragazza dai capelli fluenti e lo sguardo magnetico, credendoci a digiuno della zona, informa che esistono facili passeggiate che portano alla Rocca di Calascio o impegnative escursioni sui monti della Piana di Campo Imperatore.
Parla di antichi tratturi usati dai pastori e oggi percorribili a cavallo o in mountain Bike.
Mi magnifica le lenticchie, la ricotta, lo zafferano.
Ci consiglia anche il menù! Maccheroni alla pecoraia, ceci in umido, spezzato di agnello e cicerchiata. Peccato rinunciare.
Noi tra qualche ora saremo davanti le pietre bianche della Rocca di Calascio.

Come arrivare a Santo Stefano da Sessanio:
Da Nord: Dall'autostrada A14 seguire la direzione Ancona, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, proseguire in direzione L'Aquila, imboccare l'autostrada A 24, uscire a L'Aquila Est, prendere la SS 17 in direzione di Pescara, svoltare in direzione di Santo Stefano di Sessanio.

Da Sud: Dall'autostrada A14 seguire la direzione Pescara, continuare in direzione Roma, prendere l'autostrada A 25, uscire a Bussi/Popoli, seguire le indicazioni per L'Aquila, continuare sulla SS 5 e poi sulla SS 153 in direzione Navelli, prendere la SS 17 in direzione di L'Aquila e proseguire seguendo indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.

Dalla città de L'Aquila: Percorrere la SS 17 in direzione di Pescara, proseguire fino alle indicazioni per Santo Stefano di Sessanio.

mercoledì 16 ottobre 2013

“La Via delle Abbazie”: magnifico percorso ciclo pedonale

In bici, sotto un cielo celeste come i colori a matita dei bambini, lungo il fiume che scorre placido nella valle dei templi e i paesi immoti sulle colline.

Grazie infinite all'amico Lucio De Marcellis del Coordinamento Ciclabili teramane per la collaborazione preziosa! 

La ciclo turistica sul Vomano è un bellissimo itinerario che collega il mare alla Strada Maestra del Parco e, fino a Castelnuovo, è alla portata di tutti.

La biforcazione sul fiume Mavone, consente di raggiungere Isola del Gran Sasso e il suo santuario.


Poche indicazioni da parte dei comuni attraversati e, i turisti della costa in estate, potrebbero conoscere il nostro entroterra, per il percorso "La Via delle Abbazie".

Si parte da Scerne, ponte sul Vomano, Statale 16, risalendo la valle nell’argine sud, lato Pineto. Occorre una mountain bike o una city bike con gomme grandi.
La prima parte del percorso, ben tenuto dal comune, costeggia il fiume e s’incontra una zona verde adatta per una bella area di sosta.
Qualsiasi gamba può giungere al ponte di Fontanelle di Atri.
Attraversatolo, si inizia a costeggiare l'argine nord di Notaresco.
Di fronte c’è la splendida abbazia di Santa Maria di Propezzano.

In corrispondenza dell’altro gioiello romanico, San Clemente al Vomano, si punta verso la chiesa, lasciando l'argine alle spalle.
La deviazione è necessaria perché il fiume sta erodendo la sponda.

La grande sorpresa è l’incontro con Giuseppe Tupitti, artista e artigiano.

Nella sua casa, sul percorso, questo signore ha realizzato un piccolo museo privato, macchina del tempo.
Ci sono le trebbiatrici, cinque volte più piccole del normale, i mini trattori, le artistiche sculture di ferro battuto.
Un cartello avvisa: "Io con la vita mi diverto".

Raggiunta la statale, si costeggia il marciapiede nei pressi del ristorante “I Tre Archi”, poi dell'agriturismo “Il Cammino storto”.
Siamo vicini all'area industriale di Castelnuovo.
Fin qui, tutto facile.
In breve scopriamo la torre di Montegualtieri.

Attraversato il ponte, si entra nel territorio di Cellino.
Svoltando a destra, costeggiando il fiume a monte, si arriva a Piane Vomano e, per un saliscendi, alla località Taverna.
Più avanti c’è la diga con il lago artificiale di Villa Vomano.

Sulla statale Piceno-Aprutina, in prossimità del cavalcavia della superstrada A24, si svolta a sinistra per strade secondarie, superando la località Zampitti.
Dopo il bivio per Miano, quello di Spiano.
Una breve salita da percorrere a piedi introduce, a sinistra, per un tratturo che porta a Piane di Collevecchio.

È il tratto più difficoltoso ma anche più bello.
Si costeggia il fiume in un incontaminato bosco.
I Romani, qui, avevano costruito cisterne e terme.
I resti archeologici, affiorati su terreni privati e le locali acque sulfuree lo confermano.

Una nuova passerella conduce sulla destra del fiume, zona industriale.
In poche pedalate si avvista Montorio, la porta del Parco.

Il percorso in mappa sul sito "Piste Ciclabili"

lunedì 14 ottobre 2013

Arte medievale e rinascimentale a Pescocostanzo

Mi sono chiesto innumerevoli volte come sia possibile che un borgo montano a 1400 metri di altitudine, nel cuore di un altopiano sconfinato, possa celare nella sua compatta struttura urbanistica, gioielli incredibili tanto da farla definire una “capitale d’arte” dell’Italia meridionale.


Parlo di Pescocostanzo, il paese confinato lì dove declinano i monti della Majella e si stagliano, boscose e frammentate, le catene dei Pizzi e Secine.

Sotto le vette si trova una delle piane più belle d’Abruzzo, uno straordinario luogo con un gioco di grandi spazi e tacite, antiche presenze.
L’altopiano Maggiore con il Quarto S.Chiara, un miracolo dell’armonia della natura e della storia, custodisce questo borgo che fu frequentato da valenti architetti, scultori, poeti e artisti.

Tutti arrivarono, attratti dalle straordinarie emergenze culturali, risalenti prima al medioevo con un castello e poi al rinascimento, con il centro storico ricco di palazzi signorili e di splendide chiese.

La bellezza di questa parte d’Abruzzo si esalta ancora oggi, nelle pietre squadrate dell’antico villaggio pescolano.

Forse la grandezza del piccolo abitato fu dovuta al legame forte con l’abbazia di Montecassino che aveva nelle sue dipendenze diversi centri abruzzesi.
Già in quei tempi lontani il nucleo urbano denominato “Peschio” esprimeva altissime produzioni artigianali di orafi, maestri del ferro battuto, ebanisti e tessitori di tappeti. Ancora oggi sono rinomati in tutto il mondo, il merletto a tombolo e le lavorazioni magistrali dell’oro in orecchini, anelli e girocollo.

Non bisogna dimenticare in questi rigurgiti di grande arte che Pescocostanzo ha una storia soprattutto pastorale.

Un esercito di animali, uomini e carri che per lunghi millenni, dall’età del Bronzo, attraverso la romanità e fino alla metà del secolo scorso, hanno costituito quella economia pastorale che i nostri antenati hanno unito alla civiltà dell’amore per la terra.

Questa è una delle capitali della transumanza del centro Italia, lo testimonia la notizia storica che alla fine del XIV secolo fu fatta costruire in un piccolo paese del Tavoliere pugliese, Torremaggiore, una cappella per i pastori pescolani che lì passavano l’inverno.

Da un censimento del seicento, si scopre che gli ovini avevano una consistenza di oltre 30.000 capi.

Non è un caso che su questo ramo importante del grande tratturo Celano- Foggia, non lontano dal paese si trovi un santuario ai piedi di una rupe, dedicato a San Michele, luogo di sosta delle carovane pastorali.
Non a caso, nello splendido bosco di S. Antonio, si trova anche un’altra affascinante testimonianza con l’eremo risalente al XIV secolo, ricovero per chi aveva problemi durante il lungo cammino.

Il capolavoro del paese è sicuramente la collegiata di Santa Maria del Colle, scrigno di tesori con un incredibile rassegna di affreschi, arredi lignei, fonti battesimali, crocefissi preziosi e soffitti lignei settecenteschi dorati.
L’altare maggiore è uno spettacolo nello spettacolo.

La cappella del Sacramento è da urlo con una tela preziosa dedicata alla Madonna del Rosario, opera del pittore aquilano Cardone e la “Gloria del Paradiso” a impreziosire la cupola.
Forse l’opera più insigne è la “Madonna dell’Incendio sedato”, in cui Tanzio da Varallo, insigne pittore del Seicento, mise insieme tutto il suo grande genio, un gioiello che certamente meriterebbe una collocazione in grandi musei internazionali.

A lato della scalinata per accedere alla collegiata, sulla destra, si trova l’antichissima chiesina di Santa Maria del Suffragio dei Morti con il suo bell’altare in noce scolpito di fine seicento.
Ai piedi della scalinata la singolare “Pietra del vituperio”, dove un tempo si ponevano i fogli di scherno contro coloro i quali non onoravano i loro debiti nei confronti dei creditori. Era una sorta di ludibrio pubblico che precedeva un’incriminazione legale del debitore renitente.

Un bellissimo itinerario nel paese permette di scoprire palazzotti gentilizi di rara bellezza come:
Casa D’Amata (sec. XVI) con il caratteristico “vignale” (il pianerottolo su scala esterna),
Palazzo Grilli (sec. XVI) con quattro torrette angolari e due portali in pietra lavorata,
Palazzo De Capite con belle opere in pietra datate 1850,
la chiesetta di S. Giovanni con portale e rosone di metà Cinquecento,
Palazzo Mansi (sec. XVI), al centro del corso con il suo splendido portale, logge e scale esterne,
Palazzo Colecchi (1771) dalle linee armoniose e leggiadre,
Palazzo Cocco e Palazzo Ricciardelli , in stile barocco (sec. XVI) e balconi di ferro battuto.

Da non perdere assolutamente la visita all’ex Monastero di clausura di Santa Scolastica, costruito nel 1624 su disegno di Cosimo Fanzago.
Infine è d’obbligo un caffè nella bella e scenografica piazza centrale, zona vip del paese con il Palazzo del Governatore, recentemente restaurato, e il cinquecentesco Palazzo Comunale con la torre dell’orologio.

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Da Nord
Dall'autostrada Adriatica A14 in direzione di Ancona, seguire la direzione Roma, prendere l'autostrada A 25, uscire a Bussi/Popoli, seguire le indicazioni per L'Aquila, continuare sulla SS 17, attraversare Popoli e svoltare sulla SS 84 in direzione di Pescocostanzo.
Da Sud
Dall'autostrada A14 seguire la direzione Pescara, prendere l'autostrada A 16 in direzione Benevento, continuare per il raccordo RA 9 e a Benevento proseguire sulla SS 88, uscire in direzione Campobasso, prendere la SS 17, proseguire per la SR 84 in direzione di Pescocostanzo.
Da L’Aquila
Percorrere la SS 17 in direzione di Pescara, proseguire sulla SS 153 in direzione di Navelli, continuare sulla SS 17, attraversare Popoli, svoltare sulla SS 84 in direzione di Pescocostanzo.

martedì 8 ottobre 2013

I gioielli di Bominaco

L’altopiano di Navelli rimane uno dei luoghi più straordinari d'Abruzzo anche se l’uomo negli ultimi anni sta cercando di deturparlo con un orrido rigurgito di asfalto e cemento tra svincoli di accesso che farebbero pensare a vicine megalopoli anziché deliziosi paesini.



Borghi antichi si elevano sulla piana, dopo il sisma del 2009, semi abbandonati.
Nonostante tutto i grandi spazi e le distese verdi di mandorli resistono.
Ancora crescono gli orapi selvaggi, mentre intorno nessuno può togliere l’indimenticabile vista di monti e antichi abitati turriti.
Questa era il “fiume d’erba silente” della transumanza con le chiese tratturali, luoghi di sosta spirituale, i preziosi resti della romana Peltuinum e il romanico immortale di Bominaco.

La terra dello zafferano che un giorno veniva calcata dai misteriosi Guerrieri di Capestrano, quelli dal cappello a larga falda è un posto mitico nella regione.
Dovrebbe essere un luogo da conservare … dovrebbe.

Dovrebbe essere gridato il principio della intangibilità del patrimonio ambientale e artistico, dovrebbe essere fermato chi aspira a scippare la collettività del suo patrimonio di bellezza pervenuto dall’antichità.

E invece si continua a deturpare tutto con tappeti di bitume.
Questa era anche la terra dei Vestini, prima che giungessero anche qui, inesorabili, le legioni di Cesare.

Le imponenti mura raccontano della resa di un popolo che scomparve subito dopo, decimato da guerre e pestilenze.

Da Prata d’Ansidonia eccomi a sud, sulla statale 17 che mi porta a Bominaco e le sue case da poco meno di ottanta anime, nel territorio di Caporciano.

Oltre il paese c’è la splendida chiesa di Santa Maria Assunta con accanto il gioiello dell’Oratorio dedicato, chissà perché, all’abate San Pellegrino, contemporaneo di Cristo sconosciuto da queste parti.

In un comprensorio come quello aquilano dove da oltre quattro anni dal terremoto, è impossibile trovare una chiesa senza imbracature e puntelli, dove hanno chiuso nel cuore della città di Aquila, Collemaggio e San Berardino per pericoli di crolli, questo doppio tempio dell’anima è uscito indenne dal disastro.

E sì che l’abbazia del borgo medievale ha tutto simile a Santa Maria ad Cryptas nella vicina Fossa, chiesa che ha avuto seri danni in tutto il perimetro di struttura.

Dell’Oratorio che si trova proprio davanti al cancello d’ingresso di tutta la struttura immersa nel verde, ci sarebbe da dire tanto da riempire un libro: uno dei gioielli preziosi d’Abruzzo.

Ogni suo centimetro quadrato interno è affrescato mirabilmente come una sorta di Cappella Sistina.

Sui muri santi che inneggiano, un inedito calendario medievale simbolico a celebrare con tanto di segni zodiacali, il duro lavoro contadino nei mesi dell’anno e poi un grande San Cristoforo, oggetto di superstizione antica che lo vuole protettore contro le morti improvvise.

Affreschi di scuola abruzzese del XII secolo di maestranze artistiche che avrebbero imperversato in molte chiese dell’aquilano, opere di vasta dimensione che fanno gridare al miracolo per essere scampati miracolosamente alla terribile botta della terra.

Tant’è! Neanche altri terremoti, compreso quello distruttivo del settecento hanno scalfito la guerra di resistenza al tempo e noi non possiamo che gioirne.

Non so quanto ci sia di vero nel fatto che sia stato eretto da Carlo Magno.


Il grande condottiero avrebbe fatto elevare la basilica del Santo Liberatore a Majella, poi un altro considerevole numero di abbazie sparse in Abruzzo.
Non gli sarebbero bastati cento anni di vita nomade.

La chiesa che si trova subito dopo è fantastica nella sua semplicità di linee e colori.

Edificata fra l’ XI e il XII secolo stupisce per l’essenzialità della sua pianta rettangolare, le tre navate con eleganti colonne, le tre absidi, tipico delle basiliche romaniche e i capitelli diversi tra loro.

Ci sono da visitare, sulla collina circostante, i resti di un antica abbazia del mille, dipendenza della grande Farfa, con mura che si affacciano meravigliosamente sulla grande piana, tra distese arate, piccoli poderi, paesini fortificati.

La struttura, con castello annesso, fu rasa al suolo dalle indiavolate truppe di Fortebraccio da Montone, il famoso capitano di ventura nei primi anni del 400 durante la sanguinosa guerra tra Angioini e Aragonesi.

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La visita all’oratorio di S. Pellegrino e all’abbazia di S. Maria Assunta è consentita e garantita dalla custode signora Dora al numero di tel.: 0862.93765. 

Dall'Autostrada A24 (Roma-Teramo) uscire a L'Aquila est e proseguire in direzione San Demetrio-Fagnano Alto-Caporciano-Bominaco. 

Provenendo dall'autostrada A25 (Pescara-Torano) uscire a Bussi-Popoli, proseguire lungo la SS17 in direzione Navelli e seguire poi le indicazioni per Caporciano. 
Provenendo da Napoli invece, dall'autostrada A1, uscire a Caianello e seguire poi le indicazioni per Roccaraso - Sulmona - L'Aquila - Caporciano - Bominaco.

lunedì 7 ottobre 2013

Le storie fantastiche di Lama dei Peligni

Lama dei Peligni è un paese nella valle dell’Aventino, alle pendici del monte Amaro, abitato sin dalla preistoria.
Le prime notizie del borgo medievale si hanno nel secolo XII.

Immerso in un contesto naturale di rara bellezza, nell’Oasi Majella Orientale, si trova a pochi passi dalle famose grotte del Cavallone, luogo immortalato dal Vate D’Annunzio che vi ambientò la tragedia della Figlia di Jorio.

Da non perdere in centro, la parrocchiale cinquecentesca di San Nicola con il suo bel loggiato.
È una parte d’Abruzzo, dove leggende e tradizioni si tramandano nei secoli.

Secondo un’antica credenza, tramandata oralmente dai vecchi abitanti del paese, le gigantesche rocce che si ergono tortuose e dolenti dal terreno, nel cuneo che porta al grande anfratto della grotta, erano mostri pietrificati.

Questi animali popolavano il pianeta prima della comparsa degli uomini.

Una di quelle pietre mastodontiche prese la forma di un enorme cavallo, simbolo di libertà e di una natura che non cede alla dominazione degli esseri viventi.
Da qui il nome dato al complesso ipogeo del “Cavallone”.

Sono soprattutto sacre le storie incredibili che ruotano intorno a questo paese dal sapore leggendario.

Una di queste narra di una statua, neanche molto pregiata, dedicata alla Madonna della Misericordia, un’opera in stucco dipinto del secolo XVIII, attribuibile a una bottega di maestri lombardi che da queste parti e ancor più nella vicina Taranta Peligna, hanno lasciato più di un lavoro artistico.


L’esemplare che oggi si conserva nell’abside della chiesa dei Minori Osservanti di Lama non sarebbe neanche originale ma una brutta copia di una statua lignea andata distrutta nel corso dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.
La particolarità è che questa statua sarebbe miracolosa.

Anzitutto si rifiuterebbe di uscire dalla sua nicchia e poi da quel posto, dove si trova, sarebbe in grado di proteggere il paese.
Si narra che molti anni fa, nei giorni di festa a Lei dedicata, la Madonna fu portata dai Lamesi in processione.

Dopo pochi minuti si scatenò una tempesta d’inaudita potenza che scrosciò acqua in quantità paurosa dai valloni della Majella.
L’abitato era in serio pericolo.
La processione tornò indietro e quando la statua fu riposta nella nicchia, di colpo la tempesta scomparve.

Questa tradizione non è soltanto orale ma è riportata anche in un vecchio e interessante libro di Francesco Verlengia sulle tradizioni abruzzesi, edito nel 1958.

La singolare circostanza è che esisterebbe sempre a Lama, un’altra Madonna che invece ama circolare in lungo e largo nei paesini del comprensorio.
Parlo della Madonna dei Corpi Santi, raffigurata con mano un fiore e nell’altro braccio, ricurvo, il Bambino.

La statua veste di rosso con ricami in oro ed è coperta da un manto azzurro trapunto di stelle argentee.

La festa della Madonna si svolge nell’ultima domenica di agosto e accorrono fedeli da ogni parte della valle dell’Aventino.



La leggenda racconta che questa figura di Vergine era originariamente custodita nella chiesa di Montemoresco presso Torricella Peligna.
Da qui la statua era scappata e fu ritrovata, settimane dopo, in una piccola cappella nei soprastanti monti Pizii.
La statua camminò ancora per ricoverarsi nella chiesa madre di Gessopalena.

I gessani fecero grandi feste alla Madonna miracolosa, gioiosi che aveva scelto il loro paese come sua casa.
Si decretò una fiera da celebrarsi ogni anno in onore della Vergine.
La Madonna, inquieta però, tornò a camminare due anni dopo.
Fu ritrovata in un campo da un contadino di Lama dei Peligni.
In mezzo ai rovi pungenti vide il manto rosso della mamma di Gesù e il brillare dei gioielli con cui l’avevano agghindata gli abitanti di Gessopalena.
Così fu portata nella chiesa di Santa Croce, tra i mugugni degli abitanti dei borghi vicini che videro questa cosa come una sorta di furto perpetrato nei confronti di Gessopalena.

La Madonna non si mosse più da Lama e anzi pare che protesse il paese anche dal terremoto disastroso del novembre 1706 che abbatté gran parte dell’abitato e che nonostante tutto non fece un grande numero di vittime così come poteva far supporre l’entità della scossa tremenda.

La Madonna, secondo molti abitanti, ancora oggi benedice le nascite e i matrimoni, veglia infermi e moribondi, protegge i pastori.

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Come arrivare a Lama dei Peligni:

Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: in direzione di Ancona; da sud: in direzione Pescara), uscire a Val di Sangro, seguire la direzione Villa S. Maria, prendere la SS 652, continuare sulla SS 84 in direzione Casoli/Lama dei Peligni.

Da Chieti: Percorrere la SS 81 in direzione di Guardiagrele, proseguire sulla SS 84 in direzione Casoli/Lama dei Peligni.

Da Pescara: Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare sull'autostrada A 14 in direzione Bari, uscire a Val di Sangro, seguire la direzione Villa S. Maria, prendere la SS 652, continuare sulla SS 84 in direzione Casoli/Lama dei Peligni.