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giovedì 30 maggio 2013

Il miracolo della Madonna d'Appari a Paganica.

“… quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. (Galati 4, 4-5)

I tornanti, incassati nella pietra, filano via verso L’Aquila con pareti alte dai fianchi lisci e levigati e forre profonde scavate dall’acqua.

Sul piccolo piazzale, a pochi tornanti dal borgo antico di Paganica, uno di quelli più sconvolti dal terremoto di aprile, mi attende il santuario della Madonna di Appari.

“Scrivilo pure che qui non si tratta di un miracolo creato ad arte per scopi turistici. La Vergine Addolorata, con il figlio morto, è apparsa, eccome”.

E’ molto più di una semplice fede quella di Rocco Bizzarri, vissuto lunghi anni ad Assergi e oggi settantenne scampato al disastro.

“La piccola pastorella Maddalena, intorno al 1400, fu così turbata da questa divina presenza da riuscire a convertire in breve tempo l’intero paese di Paganica”.

Con fede immensa, il popolo innalzò un’edicola incastonata nel masso e un piccolo tempio con una rustica stanzetta dove un romito pregava, cibandosi di erbe e dormendo su di un inospitale pagliericcio addossato alla parete rocciosa.
Il letto incavato del torrente Raiale oggi è poca cosa, ma un tempo, la forza devastatrice delle acque aveva aperto un varco tra i massi da dove riusciva a passare solo un cavaliere in groppa al suo animale.

L’erta mulattiera che porta in paese attraverso rovi, felci e, più avanti, un bosco ceduo ben descritto dai cartelli del Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga era, un tempo, itinerario consueto ai carriaggi e ai quadrupedi.
Gli antichi attraversavano questo luogo impervio con muli carichi di grandi some che pencolavano paurosamente verso la ripa.

La piccola chiesa, con il suo campanile a vela dai bronzi abbruniti, è stata sempre meta di fedeli, scalzi e oranti che, dal sagrato del tempio fino sopra l’altare in pietra, scioglievano il loro voto, trascinandosi in ginocchio e ferendosi con gli spuntoni aguzzi del pavimento in viva roccia.

Scopro attraverso l’obiettivo della mia Nikon, sulle pietre rustiche del campanile, quello che si potrebbe definire “l’ingenuità popolare”: due feticci e mani aperte a impedire l’avvento del Male e tenere lontane le ombre inquiete che si credeva razzolassero in mezzo a queste aspre lande.


La chiave cigola nella toppa della serratura, la porta si apre e la luce penetra, attenuando l’oscurità dell’interno.

Arte insospettata a profusione, la stessa che ispirò il drammaturgo Antonio Di Jorio per una sua opera pastorale da un libercolo di Giuseppe Garofalo.
Una serie stupenda di pitture, miracolosamente illese dopo il possente sconquasso.

Le scene raccontano l’incoronazione della Vergine, l’Ultima Cena fino alla Passione e Morte di Cristo, in un crescendo che giunge all’ammirazione per l’organo ottocentesco, recuperato dalla Sopraintendenza alle Belle Arti non molti anni fa.

E’ tempo di ripartire.

Il sole quasi si spegne rifrangendosi sulle scacchiere brunite dei coppi di Assergi.
La macchina vorrebbe mettere il pilota automatico e volgere a ovest, verso il lago di Sinizze.

È tempo, però, di dedicare parte del vagabondaggio alla mia provincia, quella teramana.

mercoledì 29 maggio 2013

Le meraviglie di San Clemente a Casauria

Il cancello d’ingresso che apre un piccolo viale, ha l’aria di averne viste tante!
Sembra di essere all’interno di un’antica villa in Sicilia, ambientazione delle mitiche avventure del commissario Montalbano creazione della prolifica penna di Camilleri.

Gli occhi si posano su antiche statue acefale, capitelli, resti di architettura d’altri tempi giunti a noi per intercessione di Dio.

Ma già incombe l’austera facciata di un’abbazia imperiale antichissima dalla forma quadrata e il portico a tre arcate con altrettanti portali.

Siamo in una delle più antiche basiliche d’Abruzzo che si raggiunge attraverso l’A24 Pescara - Roma uscita Torre dei Passeri.
San Clemente a Casauria si trova in una zona molto interessante, ricca di vigneti, dalla quale in un attimo è possibile raggiungere i selvaggi eremi del Parco della Majella, in mezzo ad una straordinaria natura.
Salici, pioppi e antiche querce cingono, come in un abbraccio immortale, la vecchia abbazia e sullo sfondo si stagliano frastagliate cime e contorni indefiniti di vecchi abitati.

A pochi chilometri c’è il borgo antico di Tocco con le sue grosse pale eoliche e, nella valle accanto, Castiglione e la grotta del giovane beato Sulpizio dove, alla sua morte sgorgò acqua che si crede curativa e benedetta.

Credo che neanche l’imperatore Ludovico, che volle fortemente la costruzione di questo meraviglioso sito sacro nell’anno 871, avesse lontanamente in animo che San Clemente potesse, a distanza di secoli, rappresentare uno dei più affascinanti monumenti dell’arte cristiana, uno dei momenti più alti della presenza benedettina in Abruzzo.

Erano tempi difficili!

I Saraceni invadevano le nostre coste, distruggendo tutto al loro passaggio.
Molti barbari percorrevano antiche vie consolari da Rieti attraverso l’Appennino, Introdacqua, Cittaducale, poi la piana di Navelli, attraverso Popoli per giungere nelle nostre ubertose terre del sud e fare razzie.

Contro queste orde fameliche si schierò Ludovico detto “il Pio”, uomo timorato di Dio, discendente della gloriosa dinastia del mitico Carlo Magno.
Egli fece erigere questo colosso per sciogliere un voto di ringraziamento al Signore del cielo e della terra che lo aveva fatto uscire indenne dalla battaglia di Benevento. In quel sanguinoso evento riconquistò, a spese degli invasori, le città di Bari e Salerno.

Il posto, lussureggiante e vicino al rigoglioso fiume Pescara, era quanto di meglio si potesse desiderare.

La chiesa, inizialmente dedicata alla S. S. Trinità, custodì le ossa di numerosi martiri, per poi essere consacrata al culto di quel San Clemente papa, terzo successore di San Pietro, i cui resti furono ritrovati dai santi Cirillo e Metodio in una piccola baia sul mar Nero.
Lasciarsi cullare dalla pace che pervade il luogo è il modo migliore di trascorrere una giornata da non dimenticare.

Gabriele D’Annunzio, estasiato da cotanta ricchezza architettonica e artistica, esclamò: “Sono davanti ad una sovrana bellezza!”.

Capitelli istoriati con immagini di apostoli, fregi e archetti artistici che corrono lungo tutto il perimetro della facciata, il portone centrale con le figure in rilievo di San Clemente e altri santi e abati, tutto concorre a rendere monumentale il complesso.

All’interno, una struttura semplice ma particolare, a metà strada tra romanico e gotico; meraviglia il pulpito a forma quadrata con i due animali simbolo degli Evangelisti, l’aquila e il leone dall’aria fiera e sprezzante e, di fronte, un magnifico candelabro per il cero pasquale con la lanterna decorata finemente in stile romanico.
Infine merita tutta la meraviglia di cui disponiamo, il ciborio del ‘300, opera insigne che sovrasta l’altare regalando austerità a tutto l’interno.

Per chi visiti San Clemente, è necessario ritagliarsi il tempo per una visita alla cripta sottostante, al museo e la biblioteca per poi sostare in religioso riposo nel confortevole giardino ricco di essenze e fiori.

lunedì 27 maggio 2013

La strana storia di Casa Francese a Teramo!

Una tra le pagine più sanguinose della storia di Teramo la scrisse, nell’anno 1152, Roberto di Loretello quando impose la sua signoria, espugnando la città e radendola al suolo con un pauroso incendio.

Da quella distruzione secondo storici attendibili si salvarono, parzialmente, la torre oggi detta appunto “Bruciata”, la chiesa di Santa Maria Aprutiensis, oggi Antica Cattedrale, Casa Raimondo - Narcisi all’angolo tra via Paris e via Anfiteatro, qualche brandello di mura di Santa Maria a Bitetto e, in via Stazio, Casa Francese.

Si deve presumere, quindi, che l’abitazione dell’antica famiglia dei Francese dovesse essere stata costruita intorno al 1100, nel cuore della vecchia Teramo.
Alcuni storici la datano, invece, primi anni del 1300.

E’ importante comunque sapere che ancora oggi Casa Francese esiste e si può classificare come una se non la più vecchia abitazione aprutina.
Si tratta di un edificio tipicamente medioevale, caratterizzato da una piccola corte in mattoni, alternata a ricami regolari in pietra di fiume squadrata.

E’ un manufatto incredibilmente affascinante, nonostante abbia perso parecchie delle sue antiche peculiarità, con le finestre originarie che erano di minime dimensioni dalle semplici ma accattivanti cornici in pietra.

Qualcuno nel vederla al suo interno, potrebbe obiettare che manca di decorazioni ma è proprio in questa sua austera sobrietà che risiede la bellezza del suo insieme.

Abitata dalla famiglia Francese, venne poi in possesso dei nobili titolati degli Scimitarra che lo storico Sandro Melarangelo in un suo scritto, ricordò essere i proprietari della fornace della Cona, diretta concorrente della Gattarossa del bivio Cavuccio.

Infine, in un suo articolo scritto prima di lasciarci, il grande amico Gianmario Sgattoni, raccontò che l’edificio fu abitato anche dalla famiglia De Carolis, conosciuti commercianti di Teramo, possessori negli anni ’60 di una cartoleria.

Fu sempre in quel periodo, ricorda ancora Melarangelo, che Casa Francese divenne dimora del noto fotoreporter Peppe Monti, ascolano trapiantato in Teramo già dal 1958 che molti a Teramo ricordano perfettamente.

Secondo lo storico Riccardo Cerulli, Casa Francese era un esempio di “incastellata”, casa torre intesa come piccola fortezza.
In effetti il moncone di un muro, nel giardino pensile all’interno del caseggiato potrebbe far pensare all’esistenza antica di una torre.

Pochi teramani hanno attraversato il trecentesco portale ogivale che introduce in una piacevole corte aggraziata da una sobria scalinata in mattoni, dalla quale si accede ai piani superiori.

Tutto l’insieme oggi si presenta alquanto rimaneggiato, con le mura interne ricoperte di calce bianca, così come il giardino e la sua storica e gigantesca palma, al di là del quale si apre una bella vista sulla Piazzetta del Sole dietro la chiesa dello Spirito Santo.

Ebbene, signori miei, questo antico palazzotto nobiliare è in vendita da alcuni anni.
Forse il prezzo non alla portata di tutti, forse anche la struttura antica della casa e l’attuale crisi economica, scoraggia gli acquirenti.

La signora, ultima proprietaria, anziana e stanca di dover salire ogni giorno le scale, intervistata da me un paio di anni fa, parve fermamente intenzionata a cedere un edificio che è parte integrante della storia millenaria di Teramo.

Ci dovremmo domandare, noi che amiamo la nostra città, chi mai acquisterà l’edificio, che fine farà la casa, in quali mani cadrà, quali lavori di ammodernamento subirà.

Abbiamo già, purtroppo, degli esempi negativi nella ristrutturazione di Casa Melatini, una delle più belle abitazioni nobiliari del XIII secolo, di fronte alla monumentale chiesa di Sant’Antonio.

I lavori in alcuni casi non hanno tenuto conto della storia e del valore dell’edificio e, tra i numerosi rifacimenti che esso ha subito, questo è stato forse il più distruttivo.

So che il comune di Teramo non ha granchè di fondi ma si è valutata comunque l’esigenza di acquisire questo pezzo di storia e farne magari un museo?

Com’è possibile che la Soprintendenza per la salvaguardia delle architetture storiche, non ponga vincoli a queste mura che rappresentano, insieme a quelle dei Melatini, di Casa Urbani e del palazzo liberty dei Castelli, una specie di museo di storia a cielo aperto di evidente interesse culturale?

Possibile che la Regione e altri enti territoriali continuino a disinteressarsi del patrimonio storico di Teramo?

Nella nostra città ci siamo sempre distinti per la propensione masochistica di distruzione del passato.

Non continuiamo a farci male.

L’amministrazione comunale valuti con attenzione la possibilità di utilizzare questo edificio, magari trasformandolo in Servizi Educativi per i giovani con l’obiettivo di promuovere, documentare ed educare alla conoscenza del patrimonio artistico e sociale e alla storia che non deve morire.

L’Istituto Milli di Teramo sui monti della Laga per il “Progetto Ambiente”.

Ho potuto organizzare un bel percorso didattico di cultura dell'ambiente per dei giovani studenti entusiasti all'Istituto Milli di Teramo. Incontri in aula per parlare della provincia teramana meno conosciuta ma tra le più belle realtà locali. Una giornata in montagna da non dimenticare! Grazie a tutti per questa esperienza gratificante.
 Sergio Scacchia 

Il Primo Cittadino di Crognaleto, Giuseppe D’Alonzo, è figlio del popolo della montagna: tosto e accogliente.
Orgoglioso del suo territorio e innamorato delle proprie radici.

È la piacevole sensazione che riceve chi lo incontra per la prima volta.

Dopo l’accoglienza riservata agli studenti e studentesse del “Giannina Milli” di Teramo in visita nei monti della Laga, ne abbiamo certezza.

È terminato, infatti, in bellezza a Cesacastina, con un pranzo gustosissimo a base di prodotti locali e un buffet di dolci bontà preparato dalle disponibili signore del paese, il progetto ambientale per le seconde classi dell’istituto teramano diretto dal professor Di Giannatale, penna conosciuta ai lettori dell’Araldo, autore di numerosi libri.

All’incontro con i ragazzi e i professori, erano presenti la giunta comunale con l’assessore Orlando Persia, il vice sindaco Scipioni Loreto, l’assessore del Bim e consigliere Zilli Giuliano oltre al presidente della Pro Loco di Crognaleto Cesare Quaranta e il vice presidente Francesco Maggetti.

Dopo diversi incontri nelle aule scolastiche in cui ragazzi e ragazze sono stati stimolati sulla necessità per le giovani generazioni di salvaguardare il creato e, dopo aver parlato di ghost town, tradizioni, arte e borghi montani della nostra provincia, si è pensato di dedicare sabato 25 maggio a un’uscita in ambiente.

Gli studenti, accompagnati dai professori, sono stati invitati a scoprire il fascino senza tempo di borghi in pietra come Crognaleto, Cesacastina, Frattoli, Cervaro.

I ragazzi hanno potuto vedere di persona il lavoro dell’ultimo scalpellino dei monti della Laga, Serafino della famosa dinastia Zilli, cimentandosi nella lavorazione della pietra sotto gli occhi attenti del maestro.

Hanno poi avuto la possibilità, con una gradevole camminata, di raggiungere la balconata di arenaria a oltre mille metri di altezza da dove si gode una vista stupenda su tutte le vette del Parco e dove si trova l’antica chiesa rupestre della Madonna della Tibbia.

Qui sono stati raggiunti dal parroco Don Giuseppe Lavorato, pastore delle anime di dodici comunità locali di montagna.

Il giovane sacerdote, con l’entusiasmo che lo contraddistingue, ha parlato fra l’altro, della bellissima tradizione che riguarda l’immagine sacra della Vergine di Crognaleto e l’edificazione della chiesa per grazia ricevuta.

Gli abitanti di Crognaleto hanno offerto una ricca colazione in quota. Poi, con Concetta Zilli, organizzatrice dell’intero programma, il gruppo si è recato nelle parrocchiali di Frattoli e Cesacastina per ammirare gli altari lignei barocchi che arricchiscono i fantastici interni.

Grazie all’interessamento delle popolazioni locali il giovane gruppo ha potuto ascoltare le storie coinvolgenti del passato e i problemi che hanno vissuto e vivono tuttora le comunità d’alta montagna.

A Cesacastina, con grande disponibilità, il sindaco ha risposto con entusiasmo a tutte le domande formulate dagli studenti, auspicando in futuro altri incontri con le studentesche teramane.

La calda estate di provincia

Un sentiero, lo scarpone che procede agile, schivando rocce, aggirando ostacoli.

Ripidi ghiaioni, vette complicate da raggiungere, da vivere qualche minuto per poi tornare verso il basso per non essere colti dall’oscurità del tramonto, mentre la traccia s’inoltra nel bosco, attraversa prati fioriti giungendo ad un luogo sicuro.
La montagna è passione dell’anima.

Ma anche il mare può conquistare con i suoi tramonti, la sabbia dorata e le storie infinite di pesca e di vita semplice.
L’emozione che si prova andando in barca a vela non si riesce a spiegare fino a quando non la si prova.

Governare una imbarcazione anche in assenza di vento migliore, quello trasversale, l’andatura di “bolina” cioè contro corrente, con il mezzo che quasi sbanda e che devi faticare a tener dritto, è spettacolare per chi ama l’avventura.

Cavalcare le onde che mutano colore ad ogni folata di vento con misurata spavalderia, vederle frangersi in mille rivoli bianco azzurri.
Spruzzi d’acqua salata a schiaffeggiare il corpo.
Adrenalina pura.

La consapevolezza di essere un tutt’uno con la bellezza e la potenza del creato.

E cosa dire delle stupende sensazioni che danno corroboranti passeggiate a piedi o in bici in collina a scovare poetici campi coltivati, tra filari che cominciano a popolarsi di piccoli acini, futura uva che produrrà il “sangue della terra”?

Estate: vecchie e nuove amicizie, balli, sagre e feste popolari tra formaggi, porchette sapide, e vini nobili di pura poesia.
Estate calda da vivere nel teramano per abbronzare anche l’anima oltre che il corpo.





Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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sabato 25 maggio 2013

Itinerario: la Valle delle Cento Fonti

Dislivello: circa 600 metri
Tempo di salita: 2.15 ore
Discesa: 1.30 ore.
Difficoltà: E
Itinerario parzialmente segnato (bianco-rosso)

Da Cesacastina si va per Colle della Pietra sino alle Piane, superato un campo sportivo si gira a sinistra e si raggiunge il ponte sul “Fosso dell’Acero”, poi si parcheggia a m1320.
Si può giungere a piedi dal paese prendendo ad ovest la pista che supera un’antica fonte in arenaria a m1157, costeggia a destra il Fosso dell’Acero e poi si immette sulla strada che si segue per 300m verso sinistra.

Sulla destra una stradina con catena porta ad un rifugio dell’Enel (m1352).
Si risale, per un piccolo sentiero, una valletta erbosa.
In alto si piega a destra per prati e si entra nel bosco, attraversando un piccolo fosso verso destra.

Ci si tiene sul dosso tra il piccolo fosso attraversato e quello dell’Acero e ci si allontana gradatamente sino ad immettersi in una sterrata che si abbandona ad un tornante.
Si segue a destra un largo sentiero che porta ad una radura affacciata su una cascata.
Si costeggia il torrente, parallelamente alla lunghissima lastronata su cui scorre e si esce dal bosco, dopo avere attraversato un ruscello verso destra.

Estrema attenzione a costeggiare i torrenti e non attraversarli perché si rischia molto!
Per dossi erbosi si raggiunge una seconda cascata e, scavalcata una sterrata che proviene da destra, la Sorgente Mercurio (m1800). Si sale liberamente nella larga “Valle delle Cento Fonti” solcata da fossi e si punta nella direzione della Sella di Gorzano.

Alla testata della valle si piega decisamente a sinistra (ovest), raggiungendo per un ampio dosso la cima più alta della Laghetta (m2372).




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venerdì 24 maggio 2013

San Pietro in Azzano, la terra della gens Attia

Azzano oggi è Villa Costumi e non ha una scuola, un ufficio postale, né il bar e non mi risulta che ci sia il tabaccaio o la farmacia.

Chi ha bisogno di qualcosa qui deve recarsi nella vicina Castagneto o proseguire fino a Torricella Sicura.


Se qualcuno, però, cerca solitudine è nel posto giusto: in tutta la frazione, a mezzogiorno, c'è meno gente di quanta ce ne sia a Teramo in un condominio il giorno di Ferragosto.

Un pugno di case con una varietà così minima di persone che s'incrociano in uno spazio geografico talmente ristretto che ti permetterebbe di conoscere e seguire ogni secondo della loro vita ed ogni centimetro dei loro movimenti.
E' così piccolo questo paese, che è un azzardo definirlo tale.
Il suo cimitero a due chilometri, condiviso con altri due borghi, è probabilmente grande quanto un cortile.

Il silenzio si taglia col coltello, come il buon pecorino dal sapore di montagna che ancora oggi fanno in maniera deliziosa nella vicina Villa Popolo, a una manciata di chilometri da Teramo.
Per quale misterioso scherzo dell’Onnipotente, qui è possibile trovare una chiesa rupestre, un tempo importante abbazia benedettina?

La risposta al quesito diventerebbe semplice se visitaste il luogo.
Un paradiso ideale per gli insediamenti di carattere monastico.
Potreste, chiudendo gli occhi, immaginare di ascoltare note mistiche di canti gregoriani consacrati al ritmo unificante dell’Ora et Labora benedettina.

La chiesa dedicata a San Pietro, che presenta un interessante portale rinascimentale, è situata sulla sommità di un colle da cui si gode un panorama superbo.

Pare che il cenobio sia sorto per il forte interesse dell’abbazia di Farfa e che, nel massimo del suo splendore, avesse addirittura sette chiese alle sue dipendenze per conto della badia farfense.

Sei di esse oggi non esistono più.
L’ultima, qualcuno giura sia stata la deliziosa Santa Maria De Praediis, ubicata non lontana, vero gioiello romanico in pietra, costruito, sul luogo dove, migliaia di anni fa, esisteva l’importante tempio della Dea Feronia.
A San Pietro restano, oggi, piccole vestigia della cisterna e del chiostro.

La chiesa, originariamente più grande, come racconta lo storico Niccola Palma, fu accorciata da “80 a 54 palmi per far spazio alla sagrestia e l’abitazione dell’allora curato”.

Questi luoghi vantano una storia antichissima che parte dai Romani che qui e a Pantaneto costruirono ville sontuose, passa per la civiltà longobarda, il feudalesimo dei castelli di Colle Caruno e Ioannella, la dominazione spagnola e arriva fino alle storie incredibili di briganti.

Il paesaggio,i monumenti stanno lì fermi,immobili da secoli.
La gente cambia continuamente.

Nasce, cresce, invecchia ma vive in quel fazzoletto di terra tutti i suoi momenti siano essi felici che tristi.

Vicino alla chiesa, mi dicono, vive tuttora un ultracentenario che ha trascorso gran parte della sua vita cibandosi del latte delle sue capre, dei frutti dei suoi alberi e di verdure.

Quattro vecchietti distribuiti in pochi chilometri starebbero per accendere la candelina numero 100; i ritmi lenti e l’aria buona sono evidentemente garanzia di lunga vita.

giovedì 23 maggio 2013

I Templari a Santa Maria a Mare di Giulianova

Il quartiere Annunziata a Giulianova, da dove parte il serpentone di pista per pedoni e bici del Corridoio Verde Adriatico era fino a qualche anno fa un agglomerato di case a sud, evitato accuratamente dalle persone di buona volontà perché terra di nessuno, abitato da zingari, delinquenti di mezza tacca, che imperversavano, soprattutto nelle ore serali.

C’è stata da parte dell’Amministrazione giuliese, una profonda riqualificazione della zona, partita proprio dal lungomare. Il quartiere è tornato a d essere vivibile, ricco di zone verdi e di infrastrutture.
 Fra l’altro questo grande quartiere giuliese è ricco di storia essendo stata ubicata qui la vecchia “Castrum Novum”, l’antica città romana a diciotto miglia a sud di “Castrum Truentino”, sulla via Salaria, che nel IX secolo si trasformò in “Castel San Flaviano”.

Nel XV secolo la cittadina, a causa delle scorribande di predoni del mare e l’inclemenza del clima, si era ridotta in un mucchio di rovine, tra acquitrini malsani e maleodoranti, facendo sì che gli abitanti dediti alla pesca e alle coltivazioni, si allontanassero dal luogo natio.

Fu un discendente della gloriosa stirpe degli Acquaviva a far ricostruire la città, chiamandola “Giulia Nova” e dotandola di diverse torri di avvistamento.

Intanto però erano andate perdute gran parte delle testimonianze di un passato glorioso e splendente.

La chiesa di Santa Maria a Mare, conosciuta come Annunziata è comunque un monumento salvato dalla incuria degli uomini e del tempo.

La chiesa è quella che vedete nei pressi dell’incrocio della statale 16 con la famigerata 80 per Teramo.
Venne costruita prima dell’anno Mille in questa posizione insolita sulla piana tra la costa e la collina. Rappresentava il punto di sosta per i viandanti che si recavano al mare per imbarcarsi.

Fu riferimento anche per i Crociati che giungevano da Roma attraverso i monti della Laga per salire sulle navi dirette alla Terra Santa.

Era ridotta veramente male agli inizi del ’900.
 Venne effettuato un radicale restauro intorno agli anni ’60.
In quella occasione furono salvaguardati resti di architettura romanica, che oggi sono all’interno del luogo sacro che gli esperti fanno appartenere allo stile “romanico lombardo”, molto frequente dalle nostre parti.

Grazie a manoscritti antichi si è scoperta l’esistenza in passato di un monastero con annessa chiesa a tre navate.
Doveva esserci un grande refettorio con possenti colonne in laterizio.

Poi nel trecento, forse anche per numerosi crolli, le navate della chiesa divennero le attuali due e il monastero scomparve, lasciando posto alla chiesa di oggi di media grandezza, con la facciata inconfondibile, tutta in mattoni posti orizzontalmente e l’abbellimento di piccoli archetti.

Il portale è molto simile a quello della cattedrale di Atri, anche se di fattura inferiore.
Sono particolari le piastrelle scolpite e i capitelli e leoni, soprattutto l’animale a destra che stringe nella sua morsa un drago.

L’allegoria qui è molto chiara: i leoni rappresentano la chiesa di Roma che ha forza a sufficienza per sconfiggere le eresie e il male, qui simboleggiato dalla presenza del drago con gli occhi allungati, quasi stritolato dal leone.

Questo gioiello di portale risalente al trecento, confezionato da Raimondo Del Poggio, maestro scalpellino, nelle sue diciotto formelle, contiene anche dei simboli di luce e segni del passaggio dei Templari con i classici “Fiori della Vita” e piccole incisioni dedicate ai “pellegrini”, celebrati come condizione terrena dell’uomo in perenne ricerca di Dio.

L'opera rappresenta la storia scritta per segni antichi, tra fasi dello zodiaco, luci del giorno e ombre della notte, tra alternarsi di aurore e tramonti, tra cicli di stagioni che passano senza posa. 
Ecco che un posto, trascurato da tutti noi che magari ci passiamo infinite volte, può diventare oggetto di una accurata visita.

mercoledì 22 maggio 2013

La Teramo che non conosciamo.

Un viaggio attraverso paesaggi di muri scalcinati, di ombre, in una città che cambia, ingloba e distrugge luoghi e ricordi.

Una Teramo ipogea, underground.
Una Teramo invisibile, silenziosa.
Un inusuale museo naturale sotto le viscere di una città vivente a imperitura testimonianza della sua nascita.
Un’ipotesi affascinante, coinvolgente.

Teramo città millenaria sospesa quasi per magia tra cielo e terra, che svela un aspetto che la renderebbe unica ed eccezionale: un dedalo di grotte nascosto nell’oscurità silenziosa del sottoterra del centro storico.

Si tratterebbe di antiche vie, ripari dai bombardamenti in tempo di guerra, fiumi sotterranei, ghiacciaie, cripte, persino labirinti che nasconderebbero mitici tesori.

Sotto la nostra città si celerebbe per alcuni, un mondo “parallelo”, non facile da visitare, ma affascinante e misterioso.
Una vita sotterranea a pochi passi dalla superficie; un mondo fatto di dedali e anfratti celati per anni agli occhi dell’uomo moderno.

D’altronde, alzi la mano chi è al corrente che sotto Milano corre una fitta rete di canali, coperti per fare spazio alla città “di sopra”?
Messi tutti in fila, formerebbero un tunnel lungo almeno 200 km.

Oppure che a Palermo c’è una rete di acquedotti costruiti con antichissime tecniche persiane?

O ancora, che nel cuore di Napoli si trova il cimitero delle fontanelle, creato nelle cave del rione Sanità in seguito alle epidemie che colpirono la città a partire dal ’600?

Infine sapete forse che esiste un dedalo sotterraneo nella vicina Atri, città d’arte teramana?

Il tutto a rendere l’antica “Petrut” un capolavoro millenario sospeso quasi per magia tra cielo e terra.
Forse è un sogno dilatato dal mio amore per la città di Teramo che vorrei più bella delle altre.
Perché non sognare un dedalo di grotte nascoste nelle oscurità di un tortuoso percorso sotterraneo che corre parallelo al centro storico?

Per molto tempo si è sussurrato dell’esistenza di una galleria che si diparte dal Duomo per arrivare fino al fiume.

In effetti, un cunicolo fu rinvenuto, anni fa, durante i lavori di restauro della Cattedrale.

Allora, personaggi illustri, come il prof. Sandro Melarangelo, ebbero modo di visitare parte della galleria che passerebbe sotto Piazza Martiri, quando in quello slargo furono fatti i lavori per la sistemazione della pavimentazione.

Era il lontano 1984, l’anno prima della visita in città di Karol Wojtyla che dedicò il suo 52 esimo viaggio apostolico alla nostra città.
In quell’occasione si ebbe modo di osservare l’angusto cunicolo che, partito dal Duomo, circa a metà piazza si diramava: un ramo proseguiva verso i Portici di Fumo in direzione Sant'Agostino mentre l’altro proseguiva verso il Palazzo della Sanità di via Oberdan.
S’ipotizzò che fossero vie di fuga, quando anticamente la città e i suoi abitanti dovevano guardarsi da agguerriti nemici.

Alla luce della notizia della galleria rinvenuta sotto il presbiterio, non sembrò azzardo credere all’ipotesi che un succedersi di cunicoli, apparentemente senza fine, potessero, in epoche lontane, unire più chiese attraverso scale, passaggi inattesi, stanze sovrapposte sulle cui pareti, magari, si può leggere oggi, in mille e mille piccole nicchie, la secolare avventura di una piccola città eterna.

Ricordo che il Melarangelo suggerì di rendere visibile la galleria mediante una finestra ricavata nel sottopassaggio che esiste in piazza (dove attualmente insistono dei negozi).
Sarebbero bastati un vetro e una discreta illuminazione della prima parte della grotta per far conoscere al mondo l'esistenza di questi passaggi sotterranei.

Echi misteriosi e affascinanti che raccontano storie millenarie mentre, dalle umide ombre affiorano i fantasmi della città romana e medioevale.
Il cunicolo non sarebbe l’unico nel cuore di Teramo.
Un'altra galleria partirebbe dal santuario della Madonna delle Grazie.
Il suo inizio si celerebbe sotto gli scavi del vecchio parcheggio tra gli alberi dove, da piccolo, chi vi scrive giocava a pallone la domenica in interminabili sfide tra i quartieri Torre Bruciata e Porta Madonna.

Questo cunicolo addirittura collegherebbe la piazza con l’antica e affascinante “fonte della Noce” di cui, racconti di streghe e fattucchiere, ha permeato di misteri le sue acque.

L’amico Lucio De Marcellis, entrando nei meandri della storia, mi ricordò tempo fa che una sua parente raccontò di una grotta celata nella cantina di casa nei pressi del vecchio stadio Comunale, dalla quale partiva una galleria in direzione dell'anfiteatro di Teramo.
Il passaggio fu murato per evitare incidenti .

Credo che il tuffo nelle viscere di Teramo, tra piccoli tesori ipogei da scoprire, sarebbe se possibile, un buon veicolo turistico. Basti pensare all’underground di Orvieto, vero veicolo turistico della città.

Se la Sovrintendenza squarciasse la sorta di omertà culturale cui è tenuta, forse avremmo un insolito spaccato della vita millenaria della capitale dei Pretuzi e degli usi di cavità sotterranee.

Un patrimonio di testimonianze riemerse in un intreccio tra sopra e sotto terra, tra interno ed esterno.

Il culto della Vergine dello Zafferano a Civitaretenga

In autunno, l’altopiano di Navelli in provincia dell’Aquila a 700 metri di altitudine si tinge di viola e del colore dei piccoli stimmi rossi di zafferano.

I contadini ripetono una tradizione millenaria: nelle ultime ore della notte, prima che il sole riscaldi troppo l’aria, disidratando i bulbi, i raccoglitori percorrono i campi cogliendo con delicatezza gli stigmi purpurei, poi separati manualmente, incisi con l’unghia ed essiccati nello stesso giorno di raccolta. Infine selezionati e passati al setaccio.

Il bulbo del prezioso Crocus Sativus - fiore mediorientale introdotto nella penisola italiana, precisamente in Abruzzo, intorno al 1300 dal frate domenicano Domenico Santucci - ha fatto la fortuna di questo territorio.

Navelli tiene ancora vivo il culto per questo prodotto che, come dicevamo, ha fatto la fortuna di quest’area e anche quella dei vicini centri di Camporciano, San Pio delle Camere e Prata D'Ansidonia.

Nella frazione di Civitaretenga si trova l'antico monastero di Sant'Antonio, il cui chiostro ha mantenuto intatto l'impianto del XIII secolo mentre la chiesa annessa è rinascimentale, e la settecentesca chiesa dedicata a San Salvatore, decorata con pregevoli stucchi.

A poca distanza c’è l'area archeologica Peltuinum, simbolo storico della zona, che nel III sec a.C. fu un'importante prefettura romana sulla Claudia Nova, corrispondente al successivo tratturo.

La piana si trova su un antico tratturo, oggi strada statale 17 dell'Appennino Abruzzese, sventrata da una improvvida superstrada, che in passato veniva attraversato ogni autunno da centinaia di migliaia di pecore, condotte a svernare sulla costa e cavalli allo stato brado.

Non tutti sanno però che proprio nel paesino di Civitaretenga, in aperta campagna, c’è una chiesina deliziosa dedicata alla Madonna Rossa dello Zafferano, oggi della Madonna dell’Arco, alla quale figura sacra è legata una leggenda tenerissima.

Si racconta che, in una bettola del luogo, soggiornasse un pittore squattrinato che non potendo pagare l’alloggio, fu ospitato per bontà dell’oste in una stalla, nella mangiatoia delle bestie.

Nel pieno della notte, la Madonna apparve in sogno al povero artista.
La bella Signora chiese per lei un ritratto.

L’uomo era rimasto così abbagliato dalla bellezza della donna che voleva ritrarla con quel meraviglioso sorriso.
Si accorse di non avere i colori.
Salì nella cucina di sopra, prese lo zafferano e disegnò di getto la figura della Madonna sul muro della stalla.

Da tale avvenimento, al posto della stalla nacque la chiesina e per l’immensa fede di questa gente dell’altopiano, iniziò il profondo culto per la Vergine dello zafferano il cui ritratto è custodito all’interno.

Sarebbe lei a preservare i raccolti e a rendere questa spezie dalle mille virtù, la migliore al mondo.

Lo zafferano di Navelli, contrasta l'invecchiamento, stimola il metabolismo e abbassa il colesterolo.
E’ usato anche per colorare le vesti.

La sua è una storia antica di 3500 anni, durante i quali é stato utilizzato farmacologicamente per le sue proprietà disintossicanti e gli effetti depurativi, ingrediente della medicina cinese come elisir di lunga vita e, in cucina, per impreziosire il gusto di piatti di singolare bontà.

martedì 21 maggio 2013

Il trekking della memoria

“Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divarìa” 
 (Gabriele D’Annunzio ne I pastori).

Nel cuore dell’estate, in agosto, lungo la fantastica piana di Navelli il tempo sembra invertire la marcia e tornare indietro.

Come accadeva un tempo, gli occhi di attoniti viaggiatori scoprono nuovamente carovane di greggi e uomini che faticosamente attraversano la distesa verde per giungere ai pascoli pugliesi invernali.

In realtà uomini e bestie raggiungono Santo Stefano di Sessanio dopo aver rievocato la transumanza, in omaggio a una cultura secolare che non deve scomparire.
Passa proprio nel cuore dell’aquilano il “tratturo magno”, l’autostrada pastorale, il principale dei tanti percorsi d’erba che i pastori, non più lontano di cinquant’anni fa, ancora attraversavano per condurre al cambio di stagione i loro animali dalla montagna all’Adriatico.

Una marea di bestie che ha influenzato l’architettura dei paesi, le piccole costruzioni di pietra disseminate tra i monti per ripararsi durante il lungo viaggio e la cultura rurale tra le più antiche e ricche del nostro bel Paese.

Chi volesse crearsi un trekking ideale su questo tratturo, vivrebbe un giro splendido tra grotte, monumenti e fortezze che in senso contrario, da Lanciano, la città del Miracolo Eucaristico, passa per San Liberatore a Majella, Piano d’Orta allo sbocco delle gole fino alla piana di Navelli e L’Aquila.

Anche in questa prossima estate del 2013 un fiume di pecore e di gente al seguito, come formichine, invaderà gioiosamente gli antichi tratturi dell’alto piano di Navelli, decretando nuovamente il successo di un’iniziativa che è riuscita, come da alcuni anni accade, a diffondere e sviluppare una nuova cultura dell’ambiente.

È la mirabile riscoperta della radice che ci lega ancora a una terra di enorme bellezza paesaggistica.

Sullo sfondo di un grandioso paesaggio montano, tra rovine di castelli, borghi abbandonati o quasi, si può riscoprire l’austera bellezza delle chiese campestri, non solo luoghi di culto e pellegrinaggi, ma anche zone di sosta per i pastori affaticati dal lungo cammino:
Santa Maria di Centurelli, con la sua imponente facciata dalle forme rinascimentali sfregiata dal sisma,
Santo Stefano, di origine duecentesca,
la Madonna delle Grazie, con l’ampio rosone e San Paolo, enclave benedettina del XII secolo.


Lungo pianori che ricordano le distese asiatiche, si ammirano anche i pochi resti dell’antica città prefettizia romana di “Peltuinum”, le cui pietre mute ancora campeggiano lungo uno dei tratturi che attraversa il piccolo borgo di Prata d’Ansidonia.

Tra i ruderi della porta ovest situata sulla via Claudia Nova, lì dove c’era un’entrata monumentale fiancheggiata da due torri, nella seconda metà del ‘400, gli Aragonesi installarono la dogana di pedaggio per il passaggio delle greggi, che stabiliva precise norme fiscali a tutela delle autostrade verdi .

Distrussero così definitivamente le vestigia millenarie del tempio corinzio dedicato ad Apollo.

Nella calca di turisti affascinati da questo evento celebrativo, l’anno scorso c’erano anche i pochi transumanti rimasti, settantenni ormai stanziali che, insieme a padri e nonni, hanno guidato per anni la carovana dei greggi lungo il Tratturo Magno fino alle verdeggianti distese pugliesi.
Queste anime nomadi hanno fatto la nostra storia.

Sono stati un po’ pellegrini, un po’ gitani, innamorati di orizzonti lontani.
I vecchi pastori come enciclopedie viventi ormai lise dal tempo, raccontano infinite storie, frutto di millenni incroci e rituali, con voce flebile e rotta dall’emozione.

Rievocano quando partivano, come capi di un circo della vita con i fedeli cani bianchi, passando di regione in regione e arricchendosi di esperienze e conoscenze.

In ogni loro spostamento c’era la cultura degli incontri con gente semplice e generosa che nei secoli hanno imparato ad amare la propria terra e a ricavarne sostentamento.

Nel prossimo agosto, tra storie di vita, belati, urla, tutti potranno godere anche della bellezza di paesi che hanno conservato l’impianto medievale attraverso carruggi stretti e case arrampicate una sull’altra come ponte di nave rocciosa che guarda verso il mare sfidando qualsiasi legge della statica.