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mercoledì 27 febbraio 2013

I cento anni del Museo Capitolare di Atri.


Gli orizzonti verso l’Adriatico sono dolcemente mossi come lenzuola gonfiate dal vento.

Il paesaggio della riserva naturale dei calanchi, si dispiega dolce, a tratti grandioso, con docili quinte di colore che sfumano in lontananza nel blu cobalto del mare.

La città ducale di Atri però non ha solo bellezze naturali, nè tantomeno annovera solo il gioiello della cattedrale e del palazzo Acquaviva.

Tra i suoi tanti tesori c'è il museo capitolare, autentica memoria storica e artistica di una città che non finisce mai di stupire.
Varcando l’atrio, il visitatore intuisce subito che il viaggio nel tempo, dall’Hatria archeologica alle testimonianze romane e giù fino ai giorni nostri, sarà esaltante.

Alla fine del 2012 questa stazione di rifornimento dell’anima, custode di memorie, ha festeggiato i cento anni dalla nascita.

Si trova all’interno di una struttura quattrocentesca, annessa al monumentale Duomo, dove spicca un superbo chiostro del Duecento di architettura monastica cistercense, con il suo pozzo centrale a base ottagonale del ‘500 e una cisterna romana di epoca imperiale.

Questa prodigiosa macchina del tempo segue un ideale filo logico storico e culturale sottolineato da opere insigni e antichi arredi lignei.
Il museo nacque nel 1912 per iniziativa di mons. Raffaele Tini, condotto negli anni con abnegazione invidiabile, da Don Bruno Trubiani.

Il percorso che si sviluppa in nove secoli di arte, è in grado di soddisfare ogni amante del bello con tessuti, ceramiche, quadri, gioielli.

Opere senza tempo, frutto dell’abilità delle mani di tessitori, ceramisti, pittori, orafi, lapicidi.

Il senso della bellezza contagia di sé tutta la struttura, dalle architetture agli oggetti che colpiscono tutti per la loro potenza espressiva, in grado di raccontare un po’ della cultura non solo religiosa del territorio atriano.

E così, agli occhi sbalorditi del visitatore, in una sala si mostra il fine lavoro di un intagliatore che si esprime attraverso un inginocchiatoio intarsiato dove spiccano angeli oranti, armadi di legno di un’antica sacrestia con, incorniciate mirabilmente, opere d’ispirazione biblica, pregiate cornici dove spicca il Cristo, agnello immolato per l’umanità.

Poi, in una successiva sala, lo sguardo si posa su paramenti ricamati in argento e oro, tappeti annodati con preziosi fili, fino a varcare la soglia dello spazio pinacoteca, con notevoli dipinti del ‘500 e del ‘700, che mostrano delicate immagini della Madonna con il Bambino, i santi, le tavole raffiguranti la natività e la flagellazione del Signore, fino alle raffigurazioni dei genitori della Vergine, San Gioacchino e Sant’Anna.

Una nuova sala, una nuova meraviglia.

Sfilano preziosissimi messali, codici miniati e rari incunaboli di estrema eleganza compositiva, tra maiuscole decorate, scritture gotiche, frutto di un medioevo fantastico che attraverso colori e segni, esprime la sua immortale capacità di attrarre in ogni epoca.

Ultima, ma non per importanza, la sezione maioliche di Castelli con i piatti, i mattoncini votivi, le ciotole, gli albarelli firmati Grue, Gentili, Cappelletti o Gesualdo Fuina.

Tra capitelli, epigrafi, cornici, frammenti di storia romana attraverso pietre scolpite, termina una visita fantastica a un museo poco reclamizzato ma da non perdere.

martedì 26 febbraio 2013

Quale sarà il destino di Castiglione della Valle?

L’ombra obesa e quella snella sembrano unirsi come gemelli nel ventre della mamma.

Si proiettano sul moncone del muro mentre il sole acceca con un solo raggio una casa disastrata e segna su di una parete sbilenca l’ora di Castiglione della Valle.

Pare di essere davanti a lancette invisibili slanciate su di uno schermo a mozzicone, tra case spuntate pronte a cedere definitivamente a una morte lenta per polverizzazione.

A quattro anni dal terribile disastro del terremoto che sconvolse l’Abruzzo nel 2009, è sceso il silenzio nella società dei media che ha dimenticato gli sfollati ancora dispersi fra la costa adriatica e la più lontana periferia di quella che fu L’Aquila, città di cultura e musica.

Crediamo ci sia un destino ancora peggiore per i tanti abitanti dei piccoli paesi, non solo aquilani, in gran parte ancora disastrati.

Castiglione della Valle, piccolo borgo ai piedi del Gran Sasso teramano, popolato sin dalla preistoria era, già prima del terremoto, una sorta di mini ghost town, borgo fantasma.

I pochi abitanti che erano rimasti, sfidando la solitudine, l’isolamento e gli inevitabili disagi, fuggirono tutti in quella maledetta notte di aprile e oggi ancora non tornano nel paesino medievale.

Il sindaco PD di Colledara, il noto commercialista Giuseppe Di Bartolomeo che di conti se ne intende, si dice ottimista perché i soldi della ricostruzione stanno arrivando e, presto le case diroccate e puntellate, i muri crollati e il silenzio profondo, faranno posto a ruspe per la ricostruzione.

Nel frattempo il borgo abbandonato dove soggiornò, secondo una storia che ha il sapore del fantastico, la bellissima Lucrezia Borgia con il marito Alfonso d’Aragona, giace quasi come un malato terminale ai piedi del lussureggiante parco naturale del Fiume Fiumetto.

È un Paradiso naturale tra ripide, cascatelle d’acqua e rocce secolari.

Il rischio grande non è se i tempi di ricostruzione si allungano all’infinito, mi dice l’ultimo abitante del paese, il pericolo è lo sviluppo del turismo di massa.

Ci sarebbero, infatti, le mira di una multinazionale londinese nei peggiori incubi dell’ottantenne Antonio Di Luigi, l’unico rimasto nel vecchio borgo medievale a salvaguardare da cemento e posti letto.

Il paese ha le carte in regola per diventare quello di cui molti parlano, l’albergo diffuso.
Ci sono leggende di streghe, c’è una natura sontuosa da queste parti.

C’è la storia dei palazzotti medievali con stemmi e fregi a ricordare le peripezie dei Borgia, una chiesa, seppur disastrata, che è un vero gioiello del XII secolo dedicato a San Michele Arcangelo.

In particolare all’interno del luogo sacro, c’è un pregiato soffitto ligneo dipinto che denota quanto sia antica Castrum Leonis Vallis Sicilianae, conosciuta nei documenti di secoli fa anche come Castrum ad Vallem e che alla fine del 1700 apparteneva alla Diocesi di Penne.

E c’è anche una comoda autostrada per Roma e il suo aeroporto a meno di due ore.

Butteremmo le chiavi della felicità ci dice, agitato nei modi l’irriducibile, mentre dietro di lui fa brutta mostra il muro puntellato. Uccideremmo senza pietà la suggestione di un luogo unico.

Spuntano ora diversi raggi di sole a illuminare tutto il borgo fantasma. Che lassù siano d’accordo con Antonio?

lunedì 25 febbraio 2013

Da Teramo ai confini del Regno!

Giuliano Bernardi ha una faccia scolpita con l’accetta e cotta dal sole.

A sessant’anni suonati, ogni giorno che il buon Dio regala, accumula quanti più chilometri può a piedi.

Lo incontro mentre gronda sudore e marcia come di consueto.


La bocca aperta a portare più ossigeno ai polmoni, le guance scavate e la pelle tirata.
La testa nuda, lucida, bagnata, che appare più grande di quello che è.

Gli occhi duri, puntati dritti.
Le braccia compiono movimenti ampi e lenti. Le gambe pendolano, avanti e indietro con i quadricipiti che si gonfiano e danno leggerezza al corpo.

È stato a Campli partendo dal lungofiume di Teramo. Oltre dieci chilometri, passo più, passo meno.

“Amico mio – mi dice- la nostra città offre percorsi collinari di rara bellezza e pochi ne usufruiscono”.

Il percorso che parte dalla vecchia Interamnia e porta ai confini del Regno, nella città farnese e infine a Civitella del Tronto, ad esempio, è una passeggiata ricca di storia, ambiente, tradizioni.

L’itinerario parte da Teramo, presso il Ponte degli Impiccati, risale il lungofiume del Parco del Vezzola, percorrendo la pista ciclopedonale fino all’antico Ponte degli Stucchi.
Il manufatto medioevale è in parte coperto dai rovi.
Qui si potrebbe realizzare una passerella alternativa ed economica per scavalcare il greto del Vezzola.

Una breve salita di circa cento metri conduce al piazzale del Palazzetto dello Sport.

Si prosegue sulla stradina secondaria asfaltata, alternativa a quella principale, per attraversare lo sconosciuto centro storico del piccolo abitato di Scapriano.


Salendo si costeggia la chiesetta di San Martino da poco restaurata.
Raggiunta la strada principale, con traffico scarsissimo, si guadagna la sommità della collina.

Da qui il panorama è mozzafiato: lo sguardo spazia dal mare Adriatico, ai Monti Gemelli, la catena del Gran Sasso, la roccaforte di Civitella.
Una possibile breve deviazione permette di conoscere l’abitato abbandonato di Masseri di cui ho parlato in altre pagine di questo blog.

Ora inizia una discesa dapprima morbida poi ripida e si lascia la strada principale per inoltrarsi su di una carrareccia bianca.

Raggiunto il greto di un torrente che costeggia l’abitato di Campli, si risale la scalinata arrivando davanti la famosa Scala Santa, nel cuore del borgo antico.

Chi ha buone gambe potrebbe proseguire per Civitella del Tronto, in direzione del convento di San Bernardino, la Piana di Campovalano con i suoi scavi archeologici (tombe degli antichi Piceni) e la chiesa di San Pietro.

Si camminerà fin quando non apparirà il convento francescano della Madonna dei Lumi.

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Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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domenica 24 febbraio 2013

Il comprensorio dei Monti Gemelli ... i due regni della bellezza

Una terra dalla bellezza infinita dove incontrare il popolo della montagna, la storia del mondo, la potenza della natura. Territori inaspettati a pochi passi da Teramo.

Ai piani di S. Angelo in Volturino l’aria è tersa.
Cielo d’alta quota.

Posizione impervia per quello che un tempo era un arco cenobio, il più importante dei tanti luoghi di culto rupestre della Montagna dei Fiori.

I boschi hanno tonalità grigio scuro.


D’inverno i colori perdono incredibilmente vigore.
Faggi e abeti si contendono una frontiera di ecosistemi.
A primavera qui volano i falchi.
Ora la natura riposa.

Il monte Girella, una delle due vette gemelle, sembra una piramide che si alza, regina del tempo che qui sembra essersi fermato.

Torno nel rustico paese di Macchia da Sole per balze tra ciuffi d’erba, pietre, sprazzi di verde misto al bianco delle nevi e, in alto, cumulonembi gonfi di acqua.

L’antico borgo dei Priori, popolato di monaci, oblati e pastori, oggi soffre di spopolamento a causa delle scarse risorse della montagna teramana.

Pensare che un tempo qui esistevano due mulini di cui uno, in località Cannavine, che lavorava a pieno regime.

Dall’altra parte della valle la vista spazia sulla sfortunata Macchia da Borea, la parte povera del paese, dove il sole non abita mai e il freddo “fa cadere i denti senza la tenaglia”, come dice il vecchio Oscar, una vita trascorsa, in ogni stagione dell’anno, tra pecore, capre e formaggi.

Dai resti della possente rocca del Re Manfredi, a picco sulle selvagge gole del Salinello, il mare in fondo all’orizzonte, appare come un miraggio lontano.

Da questa sorta di scatolone tozzo, cubo di pietre transennate dei cui restauri si favoleggia da anni, l’Adriatico lo si può immaginare spumeggiante in inverno tra le spiagge di Alba Adriatica e Tortoreto.

Monte e mare divisi da chilometri di scenografici tornanti.


Il comprensorio dei Gemelli potrebbe vivere turisticamente di rendita tra natura, storia e gastronomia.
E anche misteri!

Le leggende che popolano ciò che resta dei mitici bastioni di Castel Manfrino e le orride gole, gli affascinanti paesi abbandonati di là di Leofara, potrebbero essere ulteriore richiamo per il turismo.

Coperti agli occhi dei comuni mortali, i tanti eremi sparsi lungo il frastagliato corso del fiume, un tempo rifugio di asceti e briganti, avvolti da un intricato dedalo di vegetazione, evocano storie inquietanti.

E invece qui le presenze non decollano nonostante che nel piccolo e unico hotel ristorante della zona si mangi benissimo.

La promozione del territorio è poca cosa.
Eppure qualcuno aveva idee grandiose per il distretto dei “due Regni”.

Molti affermano che l’Ente Parco dimentica questa zona, nonostante anni fa in pompa magna fosse stato inaugurato un bel punto informativo.

A una manciata di tornanti, oltre 1000 metri di altitudine, il borgo di Piano Maggiore col suo pugno di case abbandonate che si animano in estate, ricorda una storia terribile del 1500 quando un gruppo di nove donne ritenute responsabili di crudeli sortilegi, furono processate, costrette a confessare reati mai commessi e condannate al rogo.

La vecchia chiesina di San Pietro custodisce un ossario, dove la tradizione orale racconta fossero custoditi i resti di alcuni temibili briganti quali Antonio di Forca e Berardino di Celidonia con parte del manipolo di manigoldi con cui dividevano le loro malefatte.

Il brigantaggio da queste parti non è mai mancato dal Medioevo in poi, col suo carico di temibili personaggi quali Marco Sciarra, Ursino di Sabatuccio, Alfonso Piccolomini.

Il tempo volge al bello ora che si va verso il tramonto.

Il cielo si tinge di colori.
Le striature di rosso rubino si alternano al blu dei lapislazzuli al topazio color sole, al viola dell’ametista. Una meraviglia!



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sabato 23 febbraio 2013

Valle Piola ... Il fascino della storia

Il video è stato realizzato dalla PacotVideo il 26 aprile del 1997



Le case di Valle Piola sono simili a un gregge riunito.

Sono passate generazioni, vissuto in queste povere case, dormito su alti letti di tavole, e ora riposano per sempre nella fossa comune della chiesa; è passato qui re Manfredi, e la sua anima erra ancora, a notte, senza pace, tra le rovine del suo castello.

È passato qui anche Carmine Santini «il giacobino senza pace» che, dopo una vita di violenza e di travaglio, è scannato, in una forra, dagli uomini del brigante Sciabolone; e qui s’è nascosto Delfico per mesi, vivendo in una grotta e cibandosi d’erbe.

Tutto è storia, tutto ha seguito nel mondo l’ascesa del progresso, ma i montanari di Valle Piola, come quelli degli altri villaggi di questa montagna, sono rimasti quelli che erano.

Esseri primitivi, terrorizzati ancora dal demonio e dalle streghe, che si riuniscono la notte del venerdì dinanzi al vecchio mulino.

Le ferrovie attraversano la terra, gli aeroplani sorvolano le vette ma nulla il montanaro ha voluto apprendere dagli uomini moderni, nessuna meraviglia della civiltà lo ha incuriosito.

Vive come viveva mille anni fa, mangiando ancora il suo farro, che pesta nel vecchio mortaio che già fu degli antenati; bevendo ancora l’acqua della medesima sorgente...”.
(Il giornalista Fernando Aurini in un articolo del 1959)


Valle Piola è nel distretto “Tra due Regni” del Parco Nazionale Gran Sasso-Laga.
È un nucleo di circa dieci edifici più una chiesa e un casale per pastori, a un’altitudine di circa 1000 metri sul versante nord orientale del Monte della Farina.

Da oltre un trentennio è in stato di abbandono.

L’abitato, nel corso degli anni, è stato depredato da gentaglia senza scrupoli.
La vetusta chiesa, con il tetto crollato, non ha più la campana, rubacchiata dai soliti vandali. Scomparsa la statua lignea del patrono San Nicola.

Le pitture sui muri del tempio sono state asportate chirurgicamente insieme all’intonaco.

Identica sorte hanno subito antichi chiavistelli, balconi di legno incastonati nei muri di pietra e portoni di legno intagliato.
Eppure, il fascino di questo grumo di case è incredibilmente intatto!

Il borgo, insieme alla vicina località Case Menghini, era il baluardo rassicurante sull’antica mulattiera, battuta da carbonai e pastori, che collegava la vetta del Monte Farina, rifugio dei partigiani della Resistenza teramana, con gli abitati di Acquaratola e Santa Cecilia.

Da qui i pastori abbandonavano i pascoli per raggiungere i tratturi che collegavano con il Tavoliere delle Puglie o l’Agro Pontino romano per far svernare le greggi.

Valle Piola era un centro importante per questi uomini costretti a mutare improvvisamente le loro condizioni di vita, in quella che era definita la “mala stagione”, di là dall’andamento del tempo atmosferico.



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venerdì 22 febbraio 2013

Il paese che non c’è: Frunti

Ricordo che quando scoprii i “silenzi di pietra” di Frunti, era un mattino primaverile.

Il Gran Sasso pareva delimitare il mondo conosciuto, i Monti Gemelli scuri e netti e la minuscola lingua di mare azzurrissimo dietro le spalle toglievano il fiato.

Il mondo circostante aveva il senso di una pittura con la profondità di un Corot e la chiarità di un Monet.

Ero insieme a Lucio De Marcellis del Coordinamento Ciclabili teramane, pedalavamo verso Valle Soprano e Faieto, non molti chilometri lontani da Teramo, alla ricerca dei mitici resti.
Mi disse che, per scoprire un borgo abbandonato, non era necessario arrampicarsi fin sui monti della Laga, nella valle del castellano.

Alla fonte vecchia, a circa duecento metri da Valle San Giovanni dovetti fermarmi.
Ero entrato in crisi a causa della salita.

Mancava l’allenamento che aveva il mio buon amico nelle sue gambe atletiche. La fontana, dove un tempo, le donne si approvvigionavano d’acqua con le caratteristiche conche di rame, era in gran parte ricoperta di rovi e non fu possibile dissetarsi.

La sete mi passò quando, dalla cresta, mi si aprì un fantastico colpo d’occhio sui due Corni. Lucio era già avanti con la bici, quando una voce alle spalle mi fece trasalire.

L’uomo era salito dal fosso verso il casolare abbandonato al ciglio della strada e aveva voglia di parlare.

Da queste parti le anime sono poche.

Quando gli chiesi dov’era Frunti, armato di carta topografica, il maledetto cominciò prima a ghignare poi a ridere sguaiato, infine mi disse che avevo i piedi sul “decumano” del paese, la direttrice che correva in senso est ovest nelle città romane.


“Bè - disse continuando a sghignazzare - forse ho esagerato, ma stai calpestando il luogo, dove sono nato”.

Il simpaticone abitava nel paese di Valle San Giovanni e dava l’idea di aver studiato bene le sue origini.
Ci sedemmo su quello che rimaneva di una pietra miliare e per venti e forse più minuti mi regalò una storia bellissima che in parte conoscevo grazie alla lettura degli scritti di uno dei massimi storici ecclesiastici teramani, Don Giulio Di Francesco.

L’uomo si basava, invece, per le sue notizie, sugli studi di Don Bernardino Referza, parroco originario di Cavuccio che curò le anime del paese per circa quarantasei anni, dal 1931 al 1977.

Raccontò vicende che si perdevano nella notte dei tempi, al dicembre del 1153 quando il vescovo di Teramo, Guido II con una bolla papale, annesse alla curia teramana l’abbazia che sorgeva non distante da dove eravamo, nel quadrilatero dei borghi di Varano, Prunti o Frunti, Valle Soprano e San Giovanni.

C’era un grande insediamento di monaci benedettini, proprietari di quasi tutte le terre del contado lavorate dai contadini del posto che ricevevano in cambio parte dei raccolti.

Era insomma un grande centro spirituale in tempi bui in cui la civiltà spesso era calpestata.

Il feudo dei “De Frunto” era parte di un grande paese che si chiamava, secondo gli scritti di Niccola Palma, Solignano, sulla strada per Pagliaroli e la rocca di Padula.
Nel 1286, per un breve periodo, il paese fu annesso alla città di Teramo per via di una sorta di contratto tra il “sindacus” dell’Interamnia e Roberto I di Frunti.

Il primo intendeva ingrandire la città, il secondo donare all’anonimo borgo, i privilegi concessi solo a chi fosse annesso a una grande “civitas”.

Appena lasciato l’improvvisato storico, provai ad avventurarmi in mezzo ai pochi ruderi rimasti, appendice di un mondo fantastico, tra monconi di pietra, erbacce colonizzanti e mura pericolanti avvolte dal mistero e da rovi e caprifichi.

Poi seguendo le orme di Lucio, salii su due ruote, lungo la stradina bianca che collega al tratturo sulla cresta della collina. Era l’antica via per San Giorgio, il “passo dell’asino”.

Fu massacrante.

Il "Corso Vecchio" di Teramo!

Queste sono due vedute dell'elegante Corso de Michetti, (conosciuto dai teramani come Corso Vecchio) che da Porta Reale detta Porta Madonna, sale fino al Duomo.

E' l'esempio di come la città di Teramo abbia saputo conservare le giuste dimensioni del vivere quotidiano.
Sul corso si alternano palazzi signorili, (il Savini, Casa Muzii...) e piccoli esercizi commerciali.


Il viale ha uno sbocco anche in Largo Melatino dove si trova l'abitazione nobiliare del secolo XIII della potente famiglia omonima che per oltre un secolo si disputò il dominio della citta con il rivale casato degli Antonelli.

Vi si affaccia anche la monumentale chiesa di S.Antonio e la piccola viuzza che porta in piazza S.Anna, con l'antica cattedrale oggi dedicata alla mamma di Maria per la protezione delle puerpere e il fantastico Mosaico del Leone.

giovedì 21 febbraio 2013

Faraone ovvero la suggestione del nulla!


L’arco d’ingresso in stile rinascimentale, con tanto di stemma e bassorilievo della Vergine Maria, m’introduce a Faraone Vecchio, questa ghost town che fino alla seconda guerra mondiale era un paese vivo, collegato alla vicina Sant’Egidio.

Oggi è un villaggio fantasma posto su di una piccola altura dominante il corso irregolare del Salinello che qui sposa il fiume Vibrata.

Una lapide, quasi illeggibile, ricorda ai visitatori la protezione della Vergine Maria quando il paese fu miracolosamente risparmiato dalle incursioni nemiche del 1944.

Chi ha voglia di assaporare il silenzio è servito!
Il fascino del niente è bellissimo.

Dall’antica porta si accede ad una piccola piazza sulla quale si affacciano i resti della chiesa di Santa Maria della Misericordia ad Palatium.

Un tempo era piena di opere d’arte.

Oggi le tele sono custodite nella parrocchiale di Faraone Nuovo.
Un androne misterioso coperto da rovi e caprifichi e, dietro, una sorta di piccola brughiera che corre lungo il fiume, attrae la mia attenzione.

All’orizzonte si staglia il vecchio campanile sopra un tetto parzialmente crollato.

Mentre mi regalo uno spuntino seduto sull’erba, un ragno enorme, con zampe lunghe ed inquietanti, il ventre prominente colmo di uova, se ne sta beato a prendere il sole.

Osservo la ragnatela che sembra cucita sullo stipite del vecchio portale del tempio.

Ecco che noto il fumo di un falò.
Qualcuno, al di sotto del fiume, sta bruciando le stoppie.

Deve sicuramente essere il tizio che ha ristrutturato in fondo al borgo, l’unica casa vera rimasta.
Il resto è fatto di palazzi cadenti dagli architravi nobili, viuzze completamente soffocate dalle erbe.

La curiosità è più forte della paura di crolli.
Nonostante le transenne, entro in quel che resta di un’abitazione.

Ancora intatti i ghirigori cromatici sui muri di quella che doveva essere una camera da letto.
In un'altra stanza ci sono i resti del vecchio camino.

Chiudo gli occhi e mi pare di vedere tutti riuniti intorno al fuoco, la mamma a cuocere polenta, il nonno a raccontare favole ai bimbi, il papà ad armeggiare davanti al lume per riparare il tacco della scarpa.

Di certo la storia di questo borgo fantasma è molto più misteriosa di quanto non dicano le poche carte in mano al parroco del paese nuovo.
Inizia durante il periodo romano quando dalla capitale dell’Impero sembra arrivò una legione romana diretta verso il sito di Santa Maria a Vico, nelle vicinanze di Sant’Omero.

I soldati sostarono su questa piana verde di grano e querce vicina al fiume, cibandosi di fichi, energetici e di poco ingombro per un esercito di guerrieri.

Nel corso degli anni Faraone ha restituito vestigia anche longobarde.
Il popolo barbaro rimase a lungo dalle nostre parti e lo testimoniano resti di necropoli tra Castel Trosino, Valleinquina e la Vibrata.

Nel medioevo il piccolo borgo venne fortificato con mura perimetrali ancora oggi visibili e una torre circolare custodita da guardie scelte.

Faraone era una sorta di unico maniero con la sua contrada.
Un castello sui generis che non aveva la solita ubicazione in posizione dominante su di una valle, ma quasi nascosto, a voler passare inosservato.

Geografie dell'abbandono: Masseri!

Non avete idea di come sia sufficiente spostarsi di pochi chilometri a monte di Teramo per scoprire cose del passato belle da raccontare.
“Ghost cities”, così li chiamano quei paesi che vengono abbandonati a causa di eventi naturali, come colate laviche, alluvioni, terremoti o perché la principale o unica fonte di reddito e di lavoro scompare.

Chi non ha mai sentito parlare delle ghost town del far west americano o quelle dell'entro terra australiane, ricche di un particolare fascino?

Ebbene di questi luoghi magici ce ne sono a bizzeffe anche in Italia.

Alcune amministrazioni, insieme a privati si stanno attivando per salvarli o, addirittura, ridare loro nuova vita.

Le città fantasma nostrane sono sparse un po' in tutta la penisola, ma le regioni che ne contano di più sono quelle meridionali.
Qui da noi ce ne sono e non soltanto in montagna.
E’ il caso di Masseri, o di quel che rimane di un antico borgo sventurato sulle colline spartiacque di Teramo e Campli.

Le case di questo antico borgo, in parte squarciate dal terremoto del ’50, ebbero il colpo di grazia in una frana di pochi anni dopo, che decretò la fine del paese e dei suoi abitanti.

Sonia Celii Jotterand è una bella donna che oggi vive in Svizzera.
Le sue origini, le sue radici più intime sono nel ricordo di questo paese che non c’è più.

Sentite la storia d’amore che starebbe bene in uno dei libri di Liala.

Il nonno di lei andò a vivere in questo sperduto villaggio teramano, per amore.
La suocera, Giovanna Romantini, si era sposata lì vivendoci tutta la sua esistenza.
Il giovane nel ’40 fu fatto prigioniero in Libia, trattenuto in Inghilterra fino al 1946, e quando riuscì a tornare a casa conobbe il figlio, futuro padre di Sonia, che aveva già sei anni.

Allora, mi raccontò in e-mail la donna, erano solamente diciotto le famiglie, prete incluso.
C’erano i Bianconi, i Baldassarri, i bisnonni Paolizzi, i Pucci, i De Santis.
Molti si ricordavano per i loro soprannomi, perché tutti ne avevano.

I De Santis erano i benestanti della comunità. La piccola chiesa, la scuola, erano di loro proprietà, lascito antico della ricchissima famiglia Palma, da cui nacque il famoso storico teramano.

Quando giunsi ai ruderi di Masseri li trovai quasi mimetizzati tra impervi sentieri che morivano al cospetto di fitti querceti e scampanii di pecore a bucare il silenzio dell’abbandono.

Rimasi affascinato all’idea che le pietre mute avessero conosciuto tempi in cui si mangiava pane e lenticchia, polenta al sugo, qualche fico selvaggio in estate e le castagne in autunno.

Tempi duri quando, nei piccoli borghi e non solo del teramano, il prete era anche il medico e ti propinava, in caso di malattia, infusi di erbe e poi sacramenti.

Questi luoghi persi tra le sterpaglie sono paragonabili a formicai perduti.


Mentre ero intento a perlustrare i tetti in parte caduti, stando attento a non farmi crollare qualche pietra addosso, incontrai Mimì.
Non sapevo di certo chi fosse.
Lo vidi chino, che cercava le lumache uscite fuori dopo l’abbondante pioggia dei giorni prima.

Si aggirava tra un cortiletto e una stradina sghemba di quello che era il paese, mentre i raggi del sole s’ insinuavano tra i vicoli.
Sembrava muoversi come una lucertola a cui hanno mozzato la coda, ombra di un mondo che non c’è più.
Il suo botolo lo seguiva, fedele, a ruota.

Il fisico ancora asciutto, gli occhi di un nero ardente, cappello a visiera e bastone per deambulare con sicurezza.
Quel pezzo di legno, di lì a qualche minuto, roteò nervosamente al cielo.
D’improvviso, drammatica, era montata la rabbia dell’uomo.

“Sti disgraziati hanno lasciato che tutto venisse giù”!
Fu questa la risposta alla mia domanda sul perché ci fosse un simile abbandono.
Mimì alzò la voce di molti decibel, nonostante io fossi accanto a lui, pronto ad ascoltarlo.
La voce stridula non facilitava la comprensione.

Raccontò di aver vissuto la sua giovinezza in una casa colonica non lontana da dove i figli avevano costruito un bel villino per loro e il genitore superstite.

“Meglio che vivere in una pinciara - mi disse il vecchio - come è accaduto a mia madre e mio padre”.
Erano questi manufatti le famose case a un solo piano fatte di argilla mista a paglia.

Un solo piano, una sola stanza che serviva da cucina, camera da letto e un ripostiglio dove prendeva dimora spesso una piccola capretta o qualche coniglio.
Abitazioni molto più resistenti all’acqua piovana e ai terremoti di quelle costruite oggi da delinquenti in cerca di facili guadagni.

L’infanzia di Mimì si era svolta nella casa colonica a due piani dove, a terra, c’era la stalla con buoi e mangiatoia e, al primo alla fine di una piccola scalinata, una cucina con un camino enorme e due piccoli rinsacchi per camere da letto.

Il mio loquace interlocutore ricordava perfettamente che intorno al fuoco, seduto su di uno sgabello ascoltava le favole del nonno che popolavano il suo mondo di maghi, streghe, lupi mannari, orchi di ogni genere.

I personaggi fantastici che preferiva erano i vispi “mazzmarill”, che si muovevano pur rimanendo con i piedi incollati al terreno, contorcendosi e fissando i malcapitati con due occhi troppo grandi per il piccolo viso.

Mimì bambino, se l’immaginava vestiti come i personaggi delle leggende quattrocentesche, che si muovevano roteando assurdamente fianchi e manine, emettendo striduli urletti.

Ascoltando le sue parole, trovai, di colpo, incomprensibile il perché dell’abbandono di questi luoghi magici.

Non è facile arrendersi alla fuga degli uomini e al disfacimento di queste chiocciole di pietra che in mezzo a lastroni di arenaria a volte evocano i menhir di Stonehenge.
Quando lasciai il vecchio a continuare la ricerca delle lumache, fui preso da infinita nostalgia.

mercoledì 20 febbraio 2013

La terra benedetta da Dio!

Gli Appennini sono, per chi li scopre, una delizia.
Pochi ne conoscono la dimensione reale.

Guardi le montagne sulla carta e le immagini come linea sottile che corre da nord a sud dell’Italia.
Le guardi invece sul terreno, magari da sopra una cresta, osservi il paesaggio incontaminato e sogni.

Abbandonando il caos della città nel teramano è possibile scoprire montagne incantate e vivere sprazzi di benessere, coltivando l’emozione della conoscenza.

Esistono modi di viaggiare diversi:
uno è quello della velocità, della prestazione, del tempo che stringe, del paesaggio che scorre veloce e distante da dietro i finestrini.

Un altro è quello dell’attenzione, della curiosità, del rapporto con luoghi, gente, natura.
Quello meraviglioso degli odori, dei sapori, del tempo che scorre piano come un lungo fiume tranquillo.

Quello dell’emozione.
Quello del sorriso.

Muoversi e soprattutto a piedi, vuol dire mettere da parte per un po’ l’ansia, immergersi fino in fondo nell’emozione del viaggio, conoscere il mondo toccandolo, gustandolo, ascoltandolo.

Nella nostra provincia tutto ciò è possibile, quindi bandiamo la fretta, entriamo nella vita a tempo pieno, diventiamo potenziali vagabondi.

Perché, chi vive vede molto, ma chi viaggia vede di più!

Se abbandoniamo anche per poche ore i nostri luoghi di sempre, potremo scoprire vedute superbe entrando nel cuore del Gran Sasso: il grigio Pizzo Intermesoli, con le sue lastre di pietra sfaldata, i due maestosi Corni, il Piccolo con la magnificenza di pinnacoli e creste ardite e il Grande simile a un pezzo di Dolomiti trapiantato da un grande chirurgo nel profondo degli Appennini.

Ancora, il Pizzo Cefalone con la cresta delle Malecoste, dietro la foresta del Vasto e Dio sa quant’altro di meraviglioso.
Ammireremo i picchi slanciati di solido calcare che rappresentano il sogno degli scalatori.

Sogneremo cime storiche frequentate fin dal secolo scorso dal gruppo degli “Aquilotti del Gran Sasso” che anticiparono niente di meno che i leggendari “Scoiattoli di Cortina” e i “Ragni di Lecco”, giovani tenaci che salirono tutte le vie classiche e impegnative: il Monolito, le Fiamme di Pietra, Torrione Cambi.

Sarà sufficiente catalizzare lo sguardo verso il tagliente volo di un falco che disegna infiniti cerchi, sfiorando le imperfette geometrie di cresta, guardare con curiosità il disco fluorescente del sole che scivola oltre la sagoma scura dell’orizzonte, per stare finalmente bene con se stessi.

Potremo vivere della gioia degli alberi sugli erti pendii che crescono lentamente, senza fretta, ammirare la fibra elastica che acquista vigore e si slancia verso il cielo solo dopo aver costruito fondamenta solide e robuste.

martedì 19 febbraio 2013

Silenzi di pietra!

Qualche anno fa, stavo facendo una lunga camminata in cresta su Peschio Palombo, una cima magnifica, poco conosciuta dei monti della Laga, nella parte più profonda del nostro Parco, che s’innalza regalando brividi di esposizioni ardite sul ripido.

Fermandomi ad asciugare il sudore, gli occhi caddero in fondo alla valle.

Davanti a me un territorio tutto da scoprire.
Terra di alta montagna, terra di contadini e pastori, isolata e vivente di produzione propria.

Per la maggioranza degli umani, nessun motivo per trascinarsi fin qua.
Azione assurda, anche inutile, scoprire i recessi di una terra dimenticata da Dio.

Ma, fu allora che fui preso dal desiderio di conoscere le storie raccontate dalle pietre e dal vento, fu in quel momento che ebbi la certezza che gli uomini duri e forti che popolavano quest’Abruzzo minore, erano eroi aggrappati alla montagna, che conquistavano giorno per giorno la loro esistenza senza garanzie e sicurezze.

Guardai dall’alto della cima e, negli occhi rimasero i colori, il ricordo più vivo, indelebile: i fiori abbarbicati alle rocce, il verde dei pascoli in basso, il cielo azzurro, tutto era magia.

Perché la magia esiste su queste montagne.
La stavo percependo dall’alto di quel picco roccioso, con forza, con tutti i sensi, tra gli infiniti crinali di pietra, tra il ruggito del vento e le macchie bianche delle pecore.

Una magia ipnotica che costringeva a trovare alternative alla certezza della vita.

Era la quotidianità che incontrava lo straordinario.

La magia di quelle montagne invadeva ogni cellula del corpo e della mente, come una malattia incurabile, inesorabile che non dà certezza di cura.

Il giorno dopo, domenica, io, con la mia immancabile tenda e l’amico di mille escursioni, Massimo, eravamo accampati di fianco allo scheletro di un ghost town, uno dei tanti borghi abbandonati di questi stupendi monti.

L’insieme di case in rovina, simile ad un alveare, quelle vecchie abitazioni senza tetto, corrose dal tempo e da vento e pioggia, con la loro piccola chiesa dal campanile crollato che soffrivano la vita scomparsa, mi colpirono profondamente.

Nonostante fosse un giugno con tanto sole, il vento soffiava con una brutalità selvaggia, tra le carcasse di quelle vecchie mura.

Muggiva terribilmente.

Forse fu in quel momento che maturai l’idea di scrivere questo libro.